CONTRO IL CPR DI GRADISCA, CONTRO TUTTI I CPR.

COMUNICATO SULL’AGGIUDICAZIONE DELLA GESTIONE CPR DI GRADISCA ALLA COOPERATIVA EDECO.

Il 21 agosto 2019, la Prefettura di Gorizia ha aggiudicato la gestione del CPR di Gradisca (GO) alla cooperativa EDECO di Padova. La base di gara era di 28,80 euro giornalieri per ogni recluso, più 150 euro per ogni kit d’ingresso: la cooperativa EDECO ha vinto con un ribasso dell’11% su entrambi. Si avvicinerebbe dunque la data di (ri)apertura del centro di “detenzione amministrativa” per stranieri privi di titolo di soggiorno, chiusa nel 2013 grazie alle rivolte degli stessi rinchiusi, durante una delle quali Majid, un uomo marocchino di 35 anni, cadde dal tetto mentre cercava di scappare dal lager in cui era stato rinchiuso, morendo dopo nove mesi di coma farmacologico.

CHI È EDECO?

EDECO viene fondata da Paolo Borile, ex Dc, ex consigliere provinciale di Forza Italia, ex membro del CdA dell’Ater, ex presidente del Parco Colli Euganei. Si tratta di una cooperativa nata dalla scissione della coop Ecofficina Educational, a sua volta emersa dall’azienda per la gestione dei rifiuti Padova Tre Srl, all’interno del Consorzio Padova Sud. Oggi, è una cooperativa sociale (A+B) che gestisce 6 asili nido e 3 scuole dell’infanzia e alcuni doposcuola e centri ricreativi in provincia di Padova e coordina molti progetti nell’ambito del cosiddetto turismo sociale. Gestisce un progetto SPRAR del Comune di Padova e 17 immobili destinati alla “accoglienza diffusa”, in affidamento da parte delle Prefetture di Padova, Venezia e Rovigo, per le quali coordina il lavoro gratuito delle persone “accolte”, così come di quelle carcerate. Gestisce poi delle strutture per minori non accompagnate/i (MSNA).

EDECO dice di basarsi “sui valori fondamentali dell’accoglienza, della carità e della crescita individuale” ma è nota perché coinvolta in vari processi e perché aveva in gestione il campo di Cona (VE), un campo-lager. Se sul sito di EDECO si dichiara la preferenza per la cosiddetta accoglienza diffusa e le strutture di piccole dimensioni, nondimeno EDECO gestisce, in proroga di gara d’appalto, due dei cinque Centri di Accoglienza Straordinari (CAS) di grandi dimensioni del Veneto: si tratta delle ex basi militari di Conetta (VE) e Bagnoli (PD). Nel complesso, nel 2017, EDECO ha distribuito più di 540mila pasti; dal 2010 ha ricevuto denaro per la gestione di più di 10mila richiedenti asilo.

Tra novembre 2015 e giugno 2016, i centri “di accoglienza” gestiti da EDECO – che dovrebbero “ospitare” 99 persone per 749 mila euro (novembre 2015-giugno 2016) secondo il contratto con la Prefettura – arrivano a riempirsi di 300 persone, per un guadagno di 2 milioni di euro. Testimonianze di chi è stato all’interno delle strutture EDECO parlano di cibo scadente, cure scadenti o assenti, letti orribili, riscaldamento malfunzionante e caldo soffocante d’estate, nessun armadietto personale, ammassamento di persone senza tenere conto delle provenienze, rumore continuo che impedisce il sonno, vestiti recuperati chissà dove, corsi di italiano finti (classi di 70 persone composte indifferenziatamente da analfabeti e laureati, anglofoni e francofoni e asiatici), nessuna forma di integrazione, nessuna assistenza legale, assistenza psicologica penosa, nessuna assistenza alla ricerca di una occupazione.

Il centro di prima accoglienza di Cona consisteva in una serie di tende all’interno di una base missilistica NATO dismessa. Le brandine erano ammassate a causa del sovraffollamento e la mensa non prevedeva neanche la possibiltà di sedersi per consumare i pasti. In questa struttura – che secondo l’Asl aveva 450 posti – si arrivano ad ammassare 1700 persone, con 17 operatori (dei 43 previsti dal bando). Il 2 gennaio 2017, Sandrine Bakayoko, una donna ivoriana di 25 anni, muore nei bagni del centro: i richiedenti asilo accusano i gestori del campo di aver chiamato i soccorsi in ritardo e danno il via a una rivolta che dura molte ore. Nell’autunno 2017, da Cona parte la Marcia per la dignità, una grande manifestazione collettiva con la quale le persone costrette a vivere nell’hub denuncianno le condizioni di vita a Cona e riescono a ottenere una riduzione del sovraffollamento.

A maggio 2015, la pm Federica Baccaglini apre un fascicolo sul bando Sprar a Due Carrare (PD): Ecofficina si sarebbe aggiudicata l’appalto nonostante non avesse i due anni di esperienza in gestione dell’immigrazione richiesti dal bando. In seguito, ci sono state indagini della Guardia di Finanza sui conti delle due cooperative e dei Carabinieri sugli addetti alle pulizie e sui maltrattamenti nelle strutture di Montagnana. A gennaio 2020, dovrebbe partire il processo per corruzione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta e falso, frode nelle pubbliche forniture, che vede imputati i gestori EDECO, i due ex vice prefetti Pasquale Aversa e Alessandro Sallusto e Tiziana Quintario, ex funzionaria della Prefettura di Padova.

Ad oggi, due filoni di inchiesta sono in atto per Padova Tre srl: il primo vede imputati vari dirigenti della cooperativa Ecofficina o della multiutility Padova Tre srl: sono accusati a vario titolo di falso materiale, frode in pubbliche forniture, peculato, emissione di fatture per operazioni inesistenti; il 30 luglio 2019, la procura di Rovigo ha comunicato a dodici ex dirigenti di Padova Tre srl (fallita con un buco di 40 milioni) la conclusione delle indagini del secondo filone: rischiano il processo con accuse quali bancarotta fraudolenta o documentale, false comunicazioni soiali e bancarotta preferenziale.

Nonostante le indagini in corso, EDECO si continua ad aggiudicare appalti per la gestione dell’immigrazione.


La nostra lotta contro il CPR prescinde da chi se ne aggiudica la gestione: il CPR è un lager e non esiste una maniera etica di amministrarlo. Tuttavia, questa assegnazione a EDECO rende ancora più palese cosa rappresentano le persone senza documenti per chi gestisce questi lager: nient’altro che numeri da cui trarre profitti.

Poco importa che la gestione del CPR sia affidata a EDECO, o a un’altra impresa che sceglierà di fare ricorso. Il CPR di Gradisca non deve aprire: chiunque abbia partecipato al bando e chiunque abbia votato a favore dell’esistenza dei CPT/CIE/CPR è responsabile dell’esistenza dei campi di concentramento italiani del XXI secolo.

 

Assemblea contro il CPR e le frontiere

proti CPR in proti mejam

IN MEMORIA DI FAISAL HOSSAI E CONTRO TUTTI I CPR.

Faisal Hossai è morto nella notte tra il 7 e l’8 luglio in una delle celle di isolamento del CPR di Torino, dove si trovava da 22 giorni. Secondo testimonianza di un recluso, riportata da fanpage.it, Faisal Hossai sarebbe stato stuprato da due altri prigionieri e avrebbe avuto bisogno di cure. Secondo fanpage.it, un suo compagno di prigionia aveva denunciato alla Questura la situazione con queste parole: “Ieri 24 06 2019 ci fu un episodio di stupro che si consumo all’interno dello stesso centro […]. Si tratta di un regazzo che le forze dell’ordine presenti hanno poi portato in isolamento dopo averlo portato nell’aria blu dove sono anch’io dall’aria gialla dove era prima. Questo perche quando il regazzo è entrato nell’aria ha comenciato a piangere e ci ha raccontato l’accaduto. […] La nostri paura è che provino a insabbiare l’episodio perche a loro no conviene sicuramente che si interessi la procura di quanto succede ogni giorno all’interno del centro”. La polizia ha negato di aver ricevuto qualsiasi informazione a riguardo.

Dopo la denuncia, Faisal Hossai era stato trasferito prima nella zona blu e poi in isolamento, dove è morto la notte tra il 7 e l’8 luglio. Alla notizia della sua morte, è cominciata una rivolta da parte dei suoi compagni di prigionia, stremati per le condizioni di detenzione e per le sistematiche violenze che sono costretti a subire da parte della polizia. Le proteste all’interno del centro si sono susseguite durante tutta la giornata. La sera, la polizia è intervenuta per sedare la rivolta, utilizzando lacrimogeni e idranti all’interno del CPR. Nello stesso tempo, un gruppo di solidali che si era trovato in presidio fuori dal centro ha subito – insieme ad un fotoreporter – diverse cariche della polizia in tenuta antisommossa.

La vera faccia dei CPR, la loro natura di lager, buca con la morte di Faisal Hossai il velo dell’attenzione mediatica: per un giorno un fatto di cronaca mostra la violenza quotidiana che mettono in atto questi centri di internamento. Come ci stanno gridando tutti coloro che in questi giorni si stanno ribellando e stanno fuggendo dai CPR di Caltanissetta, di Roma, di Torino e, come ci grida la morte di Faisal Hossai, i CPR sono luoghi di tortura e non devono esistere.

A meno di un mese dalla morte di Sajid Hussain, che si è suicidato mentre viveva nel CARA di Gradisca, la morte di Faisal Hossai ci mette di fronte, di nuovo, al fatto che il CPR che vogliono aprire a Gradisca – come tutti gli altri – sarà un luogo di morte, dove si sopravviverà senza tutele e sotto tortura. Solo qualche giorno fa, un altro uomo che viveva nel CARA di Gradisca ha tentato di uccidersi buttandosi nel vuoto ed è stato fermato da un un passante. Anche lui, come Sajid Hussain, aveva chiesto il rimpatrio volontario.

Come scrive il compagno di Faisal Hossai nella sua mail alla Questura e ai giornali, “Chediamo per cortesia che qualcuno ci dia voce siamo stremati della fame è degli abusi perpetrati dello stesso personale senza poter fare niente.”

Pensare di non poterci fare niente, stringere lo spettro del proprio paraocchi per evitare di fare i conti con la realtà, delegare alle istituzioni una “gestione” o un cambio, sono tutte forme di “complicità passiva” con quello che sta accadendo.

Di “complicità attiva” ce n’è già molta, a noi spetta svegliarci e prenderci la responsabilità di reagire, di fermare questa catastrofe orchestrata in nostro nome.

A Gradisca vogliono aprire un lager, a Gradisca e a Udine esistono già centri di accoglienza alienanti dove le persone si ammazzano, a Trieste vengono bloccate persone stremate, in cammino da settimane, e rispedite violentemente oltre i confini europei. Tutto ciò avviene in nome della nostra sicurezza, economica e sociale.

Quei confini e quei lager creano un mondo più violento, autoritario e insicuro per tutte e tutti, per chi è nativa/o e per chi è arrivata/o. Se chiunque lo sa facesse dei passi in più nell’azione quotidiana, il lager di Gradisca e i respingimenti al confine si potrebbero bloccare.

COMUNICATO PER LA MORTE DI SAJID HUSSAIN

Sajid Hussain aveva 30 anni ed era originario del Parachinar, in Pakistan. Era arrivato in Europa qualche anno fa. Dalla Germania, dove aveva chiesto l’asilo politico e aveva vissuto alcuni anni, si era poi spostato in Italia, come molti suoi connazionali: tuttavia la sua richiesta d’asilo in Italia si era arenata in quanto il Paese di competenza – secondo il regolamento di Dublino II (2003/343/CE) – era la Germania, dove però le persone originarie del Parachinar difficilmente ricevono la protezione, al contrario di quanto avviene nel resto dell’Unione europea. In Italia, era entrato nel sistema di accoglienza a Staranzano (GO): era stato seguito dal Centro di Salute Mentale di Monfalcone. A seguito del cosiddetto Decreto Sicurezza e del conseguente smantellamento del sistema SPRAR di accoglienza diffusa, era stato trasferito, insieme ai suoi compagni, nel CARA di Gradisca d’Isonzo, gestito dalla cooperativa Minerva.

Otto mesi fa, aveva chiesto di avviare la procedura per il cosiddetto rimpatrio volontario assistito, gestito dall’agenzia dell’ONU per le migrazioni (IOM/OIM): il rimpatrio volontario è una misura di controllo e contrasto all’immigrazione, attraverso la quale uno Stato (o un’organizzazione internazionale) danno un sostegno economico alle persone che decidono di rientrare nel loro Paese di provenienza. Il processo di rimpatrio assistito di Sajid Hussain era bloccato per mancanza di fondi, come è stato per mesi per tutti quelli gestiti da IOM/OIM. Sajid chiedeva insistentemente di essere rimpatriato o rimandato in Germania: per dimostrare questo suo desiderio, circa quattro mesi fa aveva stracciato i suoi documenti.

Sajid si è annegato nell’Isonzo a Gorizia il 14 giugno, dopo essere stato in Questura a chiedere se si fosse sbloccata la sua procedura di rimpatrio.

La vita di Sajid Hussain interseca in più punti l’insostenibilità del governo europeo delle migrazioni: un sistema che l’ha costretto a un ingresso pericoloso e illegale; che l’ha inserito in un database di sorveglianza (Eurodac); che gli ha vietato di scegliere il Paese dove vivere e l’ha costretto a tentare la procedura di asilo in Italia; che l’ha sottoposto a un processo per la richiesta d’asilo lungo e precarizzante; che lo ha costretto a vivere in una struttura affollata e non adatta alla vita delle persone; che non l’ha tutelato per i suoi problemi psichici; che non gli ha permesso di scegliere di tornare indietro, ingabbiandolo in una strada senza uscita. Il suicidio di Sajid è anche una conseguenza diretta di questo sistema: è la scelta di una persona senza possibilità di scelta; è la scelta di una persona che, come tante altre, viveva le condizioni materiali di invisibilità e disumanizzazione alle quali è sottoposta/o chi entra in Europa illegalmente. Il suicidio di Sajid è una morte di Stato.

Se il Decreto sicurezza, con lo smantellamento del sistema SPRAR e l’eliminazione della protezione umanitaria, ha reso la vita in Italia dei/lle richiedenti asilo ancora più dura, è anche vero che in Italia l’immigrazione è sempre stata gestita come un fenomeno da controllare, incanalare e reprimere, secondo le necessità del mercato del lavoro. In questo razzismo istituzionale, che fonda lo Stato italiano come è oggi, sta l’origine dello sfruttamento delle migrazioni e dell’accettabilità dell’idea stessa che le persone richiedenti asilo possano essere ammassate in una struttura come il CARA di Gradisca, isolate, infantilizzate e costrette a un’attesa lunga mesi. A fianco a quel luogo, il CARA, dovrebbe essere presto aperta una prigione per persone irregolari: il Centro Permanente per il Rimpatrio (CPR), voluto dal Decreto Minniti-Orlando. L’apertura del CPR – di fatto un lager per le persone rinchiuse – porterebbe anche a un aumento del controllo poliziesco sulle vite delle persone che vivono nel CARA, oltre a essere per loro una minaccia visibile di espulsione e rimpatrio.

Il suicidio di Sajid, morto di Stato, segue (almeno) altri quattro suicidi che sono avvenuti negli ultimi due anni tra i richiedenti asilo in Friuli-Venezia Giulia. Questa invisibilità che si fa visibile per un giorno come notizia di cronaca nera è un richiamo potente all’evidenza della brutalità del sistema delle frontiere, che crea una gerarchia mortale tra gli abitanti del mondo. La lotta per la distruzione di tutti i confini è una lotta per la libertà di tutt*.

CORTEO CONTRO I CPR, LE FRONTIERE E LA VIOLENZA LUNGO LA ROTTA BALCANICA!

Una terra segnata dal confine, ma da sempre meticcia e multiculturale, rischia nuovamente di ospitare una galera etnica.

La prefettura di Gorizia, in ottemperanza al decreto Minniti-Orlando varato dal Governo Renzi, ha pubblicato il bando per aggiudicare la gestione di un CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio, ex CIE e ancora prima CPT) presso all’ex caserma Polonio di Gradisca d’Isonzo (GO). La prima data di apertura possibile è il 1° giugno 2019.

A partire dall’apertura del CPT nel 2006, l’ex caserma Polonio è stata al centro di polemiche, inchieste giudiziarie, presidi e manifestazioni organizzate dalle reti antirazziste e solidali. Le persone detenute hanno messo in atto negli anni varie pratiche di resistenza, anche sottoforma di autolesionismo, e hanno dato vita a molte rivolte, determinando così la chiusura del centro nel 2013, dopo la morte di Majid El Kodra.

Il CPR è di fatto una prigione dalla quale i ‘trattenuti’ (non detenuti, perché l’internamento nei CPR è determinato da un provvedimento amministrativo, non da una sentenza penale) non possono uscire. La struttura di Gradisca è nota in particolare per la sua somiglianza ai carceri di massima sicurezza, evidente nella parcellizzazione di tutti gli spazi, nella presenza di grate a coprire anche i cortili interni, nel fissaggio dei suppellettili alle pareti e ai pavimenti. Il Gip presso il Tribunale di Gorizia definì nel 2014 «alienanti» le condizioni di vita del CPR e «disumano» il contesto quotidiano al suo interno.

Il CPR è un’istituzione totale e un dispositivo di controllo che instaura una gerarchia tra cittadine/i e non cittadine/i basata su razzializzazione, classe, passaporto. È un luogo di segregazione dove si può essere rinchiusi fino 180 giorni (secondo il nuovo limite fissato nel Decreto Sicurezza) anche semplicemente a causa del possesso di un permesso di soggiorno scaduto. Si tratta di un abominio giuridico che non garantisce alla persona trattenuta nemmeno le tutele che l’ordinamento italiano riconosce alle carcerate e ai carcerati.

Il CPR è solo l’ultimo anello di una catena che inizia con lo sfruttamento economico neocoloniale dei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, anche attraverso gli interventi militari, diretti o per procura, che generano eterne zone ‘destabilizzate’, facili da saccheggiare. Questo sistema costringe milioni di persone a migrare, cercando di raggiungere l’Europa. Nell’impossibilità di ottenere i visti necessari per attraversare le frontiere legalmente, esse si vedono costrette a muoversi illegalmente, pagando i trafficanti di esseri umani e affrontando viaggi massacranti e pericolosissimi.

I Paesi europei delegano il contrasto alle migrazioni a diversi agenti senza scrupoli: ai signori della guerra libici (attraverso, ad esempio, gli accordi firmati dall’ex ministro Minniti e rinnovati dal governo Lega-M5S); a Erdoğan, cui l’UE ha per questo versato 3 miliardi di euro; alle polizie di Croazia, Serbia e Ungheria, che sono da tempo sotto accusa per le violenze perpetrate contro i e le migranti lungo la rotta balcanica.

A dispetto della propaganda, questo contrasto non ha lo scopo di bloccare un fenomeno per sua natura inarrestabile, bensì di rendere quelle frontiere dei tritacarne, dei dispositivi idonei a trasformare chi riesce a superarli in soggetti deboli, disposti a ogni ricatto per conservare il premio di un viaggio difficile. Proprio per questa ragione la legge Bossi-Fini lega dal 2002 contratto di lavoro e rinnovo del permesso di soggiorno, costringendo chi arriva senza visto ad accettare condizioni lavorative spesso inimmaginabili per i cittadini comunitari, pur di non rischiare di essere rimpatriata/o.

I CPR sono l’ultimo deterrente da brandire contro chi pensa di ribellarsi a questo meccanismo infernale.

Si tratta di un sistema che cerca di rendere la manodopera straniera più sfruttabile dalle imprese italiane, che crea divisioni e concorrenza al ribasso tra gli stessi lavoratori, che permette alle forze reazionarie e razziste di costruire le proprie fortune politiche speculando sulla guerra tra poveri scatenata da questi stessi potenti.

Rompere questa catena è di fondamentale importanza per iniziare a costruire una società inclusiva aperta, accogliente e solidale.

Iniziamo da una anello: iniziamo dal CPR di Gradisca!

DOMENICA 9 GIUGNO

h 15:00 Piazza di Gradisca d’Isonzo (GO)

Siamo un’assemblea larga e plurale che non si riunisce sotto nessuna bandiera. Chiediamo perciò che nei primi spezzoni non ci siano simboli di nessuna organizzazione, per evitare che chiunque metta il proprio cappello sul corteo. Informiamo inoltre che non tollereremo simboli di forze politiche responsabili delle leggi razziste presenti in Italia.

Qui una chiamata più corta da stampare

APERITIVO DI AUTOFINANZIAMENTO

PER LE COMPAGNE E I COMPAGNI ARRESTATE/I NELLE OPERAZIONI SCINTILLA E RENATA

Venerdì 12 aprile, dalle ore 18:30, ci incontreremo al Germinal (Via delBosco 52/a) per un aperitivo di autofinanziamento. I soldi raccolti sarannoinviati per le spese legali delle compagne e compagni di Torino e Trento,recentemente arrestate/i per la lotta contro le frontiere, la guerra e i centridi detenzione per persone senza documenti.Rifletteremo sulle differenza tra le forme di lotta di ieri e oggi e sullemodalità di repressione attuate, sulla violenza di quei non-luoghi di cui iCPR rappresentano l’esempio più tangibile, sulle attuali politichemigratorie e la chiusura dei confini, su politiche securitarie e decoro. Lasuperiorità della violenza del potere del governo può durare se la suastruttura rimane intatta. Come ricostruire una consapevolezza collettiva,basata sulla forza della condivisione e della coesione tra chi lotta?

– Introduce: Gian Andrea Franchi

Daremo inoltre informazioni sulle operazioni Scintilla e Renata edaggiornamenti.

Accorrete, ci sarà un goloso buffet!

Qui il volantino stampabile

NESSUN CPR NÉ A GRADISCA NÉ ALTROVE!

L’apertura del CPR di Gradisca si fa imminente: i bandi parlano della prossima estate, le dichiarazioni dei politici locali del prossimo autunno.

L’assemblea no CPR – no frontiere ripropone un presidio davanti all’ex CIE di Gradisca, ora per metà CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e per metà CPR in costruzione. Sarà un pomeriggio di incontro e protesta, per mantenere alta la tensione sul procedere dei lavori per la “riconversione” del CARA in lager di Stato, ma anche per riprendere il filo del lungo dialogo nato in questi mesi fra chi è statx in presidio lì davanti e le persone costrette nel CARA.

Di fronte all’apertura di un lager di Stato vicino a ‘casa nostra’, sceglieremo tuttx insieme da che parte stare: contro i CPR, contro ogni confine, contro il “decreto Salvini” – in solidarietà a chi subisce il regime delle frontiere e ci lotta contro ogni giorno.

Ci vediamo a Gradisca, per un pomeriggio di incontro, rivendicazione e lotta per un mondo più giusto, un mondo senza frontiere e senza galere.

qui una nostra fanzine che spiega perché i CPR sono dei lager e perché non si può non lottarci contro: https://nofrontierefvg.noblogs.org/files/2019/03/fanzineNoCPR.pdf

https://www.facebook.com/events/811873305851460/

 

Comunicato di solidarietà

SOLIDARIETÀ ALLE ARRESTATE E AGLI ARRESTATI A TORINO e TRENTO/ROVERETO

Ogni persona che lotta contro i CPR, la guerra, il militarismo e le frontiere è senza dubbio una nostra compagna.

Tutta la nostra solidarietà va a chi è stata/o repressa/o, nelle due ultime settimane, dalle operazioni “antiterroristiche” Scintilla e Renata, svoltesi a Torino e Trento/Rovereto. In totale le operazioni hanno portato all’arresto di 13 compagne/i e ad indagarne molte/i altre/i; le accuse sono di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (articoli 270bis e 280 solo per Trento). Questi reati prevedono pene decennali e reclusione preventiva in attesa di processo – attesa che può durare molto tempo e che ora molti stanno scontando, lontani dalle loro città, in isolamento, nelle spietate carceri ad alta sicurezza italiane. Con l’operazione Scintilla viene messa sotto accusa, in particolare, la lotta contro i CPR; con l’operazione Renata, la lotta contro l’industria delle guerre e delle frontiere. Ciò che permette la reclusione preventiva è il pretestuoso reato associativo, usato già più volte in Italia e poi caduto in sede di giudizio. Queste compagne e questi compagni sono prigionieri politici.

Ciò che colpisce dell’intera vicenda non è solo la morsa repressiva sempre più stringente, ma la manipolazione mediatica orchestrata da tutti i giornali, anche quelli con facciata più alternativa. Nessuno racconta che le persone incarcerate erano conosciute sui propri territori per la sensibilità all’ingiustizia e che proprio per questa sensibilità erano attive nella solidarietà ai migranti, alle popolazioni colpite da progetti di devastazione ambientale, ai lavoratori sfruttati: si dice che erano terroristi. Se qualcuno prova a dichiarare pubblicamente che li conosceva come persone sensibili (come il prete che affittava la casa agli arrestati di Trento, o come i colleghi di lavoro), allora la stampa dice che avevano una doppia vita, che mentivano. Non si parla mai delle rivendicazioni politiche, pubbliche, alle azioni concrete incriminate, ma di atti folli che avrebbero potuto colpire chiunque o addirittura persone innocenti; le case occupate o in affitto diventano covi e i media si riempiono di foto di poliziotti in passamontagna. Non si parla di fatti ma di deduzioni e interpretazioni: “la cellula era pronta ad ammazzare” scrivono i giornali riguardo agli arrestati di Trento. “Sono delinquenti, animali da covo sovversivo, mostri, anarchici folli, non sono come gli altri, vogliono abbattere l’ordine democratico” dichiara il vicesindaco di Torino. Che poi, chi non lo vorrebbe abbattere l’ordine democratico di Salvini! Infine, mettono sotto scorta la sindaca di Torino a causa di una scritta su un muro e lo esaltano mediaticamente, cercando di fomentare un sentimento di paura e incomprensione. Ma i terroristi a noi sembrano proprio loro, che inducono terrore nella società per nascondere i loro crimini e giustificare la repressione.

La manipolazione mediatica è fondamentale: perché se venissero raccontati i fatti e le rivendicazioni, se venisse raccontato che l’unica possibile conseguenza delle azioni incriminate erano danni economici a obiettivi specifici, gli stessi danni economici che causano gli scioperi e i picchetti, se si spiegassero le ragioni, diffuse nei comunicati rivendicativi, per cui quegli obiettivi erano stati colpiti, allora tutte/i coloro che oggi siamo unite/i dallo schifo, dalla paura, dalla rabbia e talvolta dall’impotenza davanti alle politiche assassine che stanno venendo fatte, ci solleveremmo per distruggere le carceri dove hanno rinchiuso le/i nostre/i compagne/i. La lotta è la stessa, i nemici pure, ma cercano di dimostrarci che siamo diverse/i e divise/i, perché abbiamo usato l’uno o l’altro strumento a seconda del caso.

La manipolazione mediatica, che non è nuova, ha come fine più evidente la risignificazione di concetti chiave mantenendone però le emozioni connesse: come per esempio il concetto di violenza il quale suscita sentimenti profondi come paura, fragilità, protezione. Una volta risignificato il concetto per definire tutte quelle attività non legali volte a scardinare l’ordine costituito, allora l’opinione pubblica, impaurita, viene utilizzata per legittimare la repressione. Perché il silenzio, il non reagire, il non manifestare solidarietà con chi è stato preso, significa complicità con la scelta di arrestarli.

Oggi, più che mai, è importante invece tirarsi un secchio d’acqua fredda, svegliarsi, chiarire che sono loro le nostre/i compagne/i, che le vogliamo libere; che chi lotta contro il razzismo di stato, il militarismo, lo sfruttamento, il patriarcato e le frontiere è nostra compagna. È importante dire che non abbiamo dubbi su chi siamo: siamo chi ci mette testa e cuore per cambiare questo mondo bellico, basato sullo sfruttamento umano ed ambientale, siamo chi cerca strade e spacca confini per creare un mondo più bello e giusto per tutte/i. Il perbenismo interessato, legalista e moralizzatore di “sinistra”, è oggi più pericoloso che mai. Oggi che molte persone le abbiamo già perse, trascinate nel fascismo per la bocca dello stomaco con la paura dello straniero, indotta a suon di tweet, reti sociali e disinformazione mediatica.

Ricominciamo quindi riprendendoci la chiarezza mentale, parliamo senza paura delle pratiche criminalizzate, se ci sembra il caso riappropriamocene oppure no. Riflettiamo su quanti sgomberi ci sarebbero in Italia se la risposta ad ognuno fosse quella che si è manifestata a Torino poche settimane fa. Riappropriamoci dei termini, identifichiamo che la violenza, il terrore, la morte, stanno nei CPR, nelle politiche migratorie e di chiusura di porti e confini, nelle armi, nella guerra, nei decreti antiabortisti e femminicidi, nel controllo onnipresente, nelle politiche securitarie e di decoro, nelle leggi sul lavoro sempre più precario.

Manifestiamo apertamente la nostra solidarietà alle compagne ed i compagni arrestate/i. L’ultimo pezzo di campo che stanno cercando di conquistare ora è la solidarietà, criminalizzandola, cercando di intimorirci a manifestarla. Cercano di creare dei banditi per rendersi più sceriffi. Sceriffi che dichiarano ormai pubblicamente “Ci vuole un po’ di scuola Diaz” per i manifestanti di Torino [cit: Alessandro Ciro Sciretti, consigliere leghista, 10/02/2019], ossia un po’ di tortura e di teste rotte o che augurano più volte trattamenti disumani, ma possibili e già accaduti nella storia, come “marcire in galera” [cit: Salvini, ministro dell’interno, 13/01/2019].

BASTA PERSONE CHIUSE DENTRO PRIGIONI, DENTRO CPR, DENTRO CONFINI!

LIBERE/I TUTTE/I E LIBERE/I SUBITO !

SABATO 2 MARZO, ALLE h. 14 DAVANTI AL CARCERE DI ALTA SICUREZZA DI TOLMEZZO CI SARÀ UN PRESIDIO IN SOLIDARIETÀ A DUE DEI RAGAZZI DETENUTI A TRENTO, RINCHIUSI LI. Invitiamo ad una partecipazione numerosa.

Le persone dell’Assemblea NoCPR-NoFrontiere e del Collettivo Tilt di Trieste

Qui la versione stampabile

Testo del volantino distribuito al presidio di Sabato 23 Febbraio

 


CROAZIA : SBIRRI D’EUROPA


Nel 2016, l’Unione Europea ha firmato un accordo con la Turchia con il quale esternalizza alla dittatura di Erdoğan la responsabilità di fermare con tutti i mezzi le persone che tentano di raggiungere l’UE via terra attraverso la rotta balcanica; in più, l’accordo dichiara la Turchia “Paese terzo sicuro” e quindi permette il respingimento delle persone dalla Grecia alla Turchia, in cambio di 6 miliardi di finanziamenti europei. Si tratta dello stesso meccanismo degli accordi Italia-Libia, che danno alle milizie libiche la responsabilità di fermare con tutti i mezzi le persone che tentano di raggiungere l’UE via mare, attraverso la cosiddetta Central Mediterranean route.

Nonostante l’accordo, e nonostante migliaia di persone siano in effetti ferme in Turchia e sulle isole greche, la rotta balcanica è aperta e in migliaia si muovono ogni giorno per arrivare in Europa. Oggi, migliaia di persone sono bloccate in Bosnia e Serbia e da lì tentano continuamente di attraversare i confini, a piedi o con altri mezzi. L’UE, per impedire alle persone migranti di entrare, ha iniziato da tre anni la pratica dei respingimenti, illegali secondo le stesse norme europee. Un respingimento (in inglese: pushback) consiste nel bloccare le persone in transito, non permettere che richiedano asilo e deportarle oltre il confine europeo. Spesso la pratica del respingimento illegale prevede anche atti di violenza fisica e verbale, a scopo deterrente, da parte di squadre organizzate della polizia croata. La polizia croata sequestra sistematicamente le persone, le deruba dei soldi e del cellulare e le manganella, anche se si tratta di bambine-i. Medina, una bambina di 6 anni, è stata ammazzata il 21 novembre 2017 in un respingimento verso la Serbia. Dal 2018, la Slovenia si è inserita strutturalmente in questo meccanismo, mentre l’Italia ha svolto alcune deportazioni, dimostrandosi così interessata a entrare sistematicamente nell’ingranaggio.

La Croazia – che entrerà nell’area Schengen nel 2020 – riceve continuamente finanziamenti dall’UE proprio per la gestione delle frontiere: ad oggi, ha ricevuto 23,3 milioni con clausola emergenziale – di cui 6,8 a dicembre – e 108 milioni attraverso altri fondi (Fondo asilo, migrazione e integrazione e Fondo sicurezza interna 2014-2020). “Croatia is our close friend”, ha dichiarato Angela Merkel lo scorso agosto, quando le denunce delle violenze erano già note.

La proposta per il prossimo bilancio a lungo termine UE (2021-2027) prevede un contributo di 21,3 miliardi di euro per la “protezione delle frontiere esterne”, la quale “si baserà sul lavoro svolto negli ultimi anni”. Parte di quei soldi dovrà essere usata anche per la “lotta contro il traffico di migranti”, cioè per intercettare i trafficanti, che sono le persone che sulla rotta balcanica speculano sull’esistenza dei confini chiusi, facendo pagare passaggi o informazioni. La caccia ai trafficanti nella rotta balcanica è in realtà soltanto un pretesto per distrarre l’attenzione dalla violenza della vita lungo la rotta e fingere che l’Unione Europea si stia adoperando a combattere una forma di criminalità che invece contribuisce ad alimentare. I trafficanti esisteranno finché per molte persone – appartenenti a certe nazionalità e classi sociali – non ci saranno vie legali per entrare in Europa: senza possibilità di ingresso regolare le persone continueranno ad affidarsi ai trafficanti e a morire lungo la rotta.

Oggi, chi vuole confini chiusi, sfruttamento e guerra è sempre più forte.

Siamo qui davanti al consolato croato per informare sulle violenze della polizia croata, la sistematicità dei respingimenti lungo la rotta balcanica, anche dall’Italia e la connivenza di tutti gli Stati europei. Siamo qui per dire che c’è una sola soluzione praticabile alla fine di questo ciclo di violenze: l’abbattimento delle frontiere e la libertà di movimento per tutt*. Siamo qui per incitare ad agire di conseguenza, nessun’altro lo farà per noi.

Assemblea no CPR-no frontiere

Siti di riferimento:

nofrontierefvg.noblogs.org (IT)

lungolarottabalcanica.wordpress.com (IT)

www.borderviolence.eu (EN)

www.nonamekitchen.org (EN)