Comunicato di solidarietà

SOLIDARIETÀ ALLE ARRESTATE E AGLI ARRESTATI A TORINO e TRENTO/ROVERETO

Ogni persona che lotta contro i CPR, la guerra, il militarismo e le frontiere è senza dubbio una nostra compagna.

Tutta la nostra solidarietà va a chi è stata/o repressa/o, nelle due ultime settimane, dalle operazioni “antiterroristiche” Scintilla e Renata, svoltesi a Torino e Trento/Rovereto. In totale le operazioni hanno portato all’arresto di 13 compagne/i e ad indagarne molte/i altre/i; le accuse sono di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (articoli 270bis e 280 solo per Trento). Questi reati prevedono pene decennali e reclusione preventiva in attesa di processo – attesa che può durare molto tempo e che ora molti stanno scontando, lontani dalle loro città, in isolamento, nelle spietate carceri ad alta sicurezza italiane. Con l’operazione Scintilla viene messa sotto accusa, in particolare, la lotta contro i CPR; con l’operazione Renata, la lotta contro l’industria delle guerre e delle frontiere. Ciò che permette la reclusione preventiva è il pretestuoso reato associativo, usato già più volte in Italia e poi caduto in sede di giudizio. Queste compagne e questi compagni sono prigionieri politici.

Ciò che colpisce dell’intera vicenda non è solo la morsa repressiva sempre più stringente, ma la manipolazione mediatica orchestrata da tutti i giornali, anche quelli con facciata più alternativa. Nessuno racconta che le persone incarcerate erano conosciute sui propri territori per la sensibilità all’ingiustizia e che proprio per questa sensibilità erano attive nella solidarietà ai migranti, alle popolazioni colpite da progetti di devastazione ambientale, ai lavoratori sfruttati: si dice che erano terroristi. Se qualcuno prova a dichiarare pubblicamente che li conosceva come persone sensibili (come il prete che affittava la casa agli arrestati di Trento, o come i colleghi di lavoro), allora la stampa dice che avevano una doppia vita, che mentivano. Non si parla mai delle rivendicazioni politiche, pubbliche, alle azioni concrete incriminate, ma di atti folli che avrebbero potuto colpire chiunque o addirittura persone innocenti; le case occupate o in affitto diventano covi e i media si riempiono di foto di poliziotti in passamontagna. Non si parla di fatti ma di deduzioni e interpretazioni: “la cellula era pronta ad ammazzare” scrivono i giornali riguardo agli arrestati di Trento. “Sono delinquenti, animali da covo sovversivo, mostri, anarchici folli, non sono come gli altri, vogliono abbattere l’ordine democratico” dichiara il vicesindaco di Torino. Che poi, chi non lo vorrebbe abbattere l’ordine democratico di Salvini! Infine, mettono sotto scorta la sindaca di Torino a causa di una scritta su un muro e lo esaltano mediaticamente, cercando di fomentare un sentimento di paura e incomprensione. Ma i terroristi a noi sembrano proprio loro, che inducono terrore nella società per nascondere i loro crimini e giustificare la repressione.

La manipolazione mediatica è fondamentale: perché se venissero raccontati i fatti e le rivendicazioni, se venisse raccontato che l’unica possibile conseguenza delle azioni incriminate erano danni economici a obiettivi specifici, gli stessi danni economici che causano gli scioperi e i picchetti, se si spiegassero le ragioni, diffuse nei comunicati rivendicativi, per cui quegli obiettivi erano stati colpiti, allora tutte/i coloro che oggi siamo unite/i dallo schifo, dalla paura, dalla rabbia e talvolta dall’impotenza davanti alle politiche assassine che stanno venendo fatte, ci solleveremmo per distruggere le carceri dove hanno rinchiuso le/i nostre/i compagne/i. La lotta è la stessa, i nemici pure, ma cercano di dimostrarci che siamo diverse/i e divise/i, perché abbiamo usato l’uno o l’altro strumento a seconda del caso.

La manipolazione mediatica, che non è nuova, ha come fine più evidente la risignificazione di concetti chiave mantenendone però le emozioni connesse: come per esempio il concetto di violenza il quale suscita sentimenti profondi come paura, fragilità, protezione. Una volta risignificato il concetto per definire tutte quelle attività non legali volte a scardinare l’ordine costituito, allora l’opinione pubblica, impaurita, viene utilizzata per legittimare la repressione. Perché il silenzio, il non reagire, il non manifestare solidarietà con chi è stato preso, significa complicità con la scelta di arrestarli.

Oggi, più che mai, è importante invece tirarsi un secchio d’acqua fredda, svegliarsi, chiarire che sono loro le nostre/i compagne/i, che le vogliamo libere; che chi lotta contro il razzismo di stato, il militarismo, lo sfruttamento, il patriarcato e le frontiere è nostra compagna. È importante dire che non abbiamo dubbi su chi siamo: siamo chi ci mette testa e cuore per cambiare questo mondo bellico, basato sullo sfruttamento umano ed ambientale, siamo chi cerca strade e spacca confini per creare un mondo più bello e giusto per tutte/i. Il perbenismo interessato, legalista e moralizzatore di “sinistra”, è oggi più pericoloso che mai. Oggi che molte persone le abbiamo già perse, trascinate nel fascismo per la bocca dello stomaco con la paura dello straniero, indotta a suon di tweet, reti sociali e disinformazione mediatica.

Ricominciamo quindi riprendendoci la chiarezza mentale, parliamo senza paura delle pratiche criminalizzate, se ci sembra il caso riappropriamocene oppure no. Riflettiamo su quanti sgomberi ci sarebbero in Italia se la risposta ad ognuno fosse quella che si è manifestata a Torino poche settimane fa. Riappropriamoci dei termini, identifichiamo che la violenza, il terrore, la morte, stanno nei CPR, nelle politiche migratorie e di chiusura di porti e confini, nelle armi, nella guerra, nei decreti antiabortisti e femminicidi, nel controllo onnipresente, nelle politiche securitarie e di decoro, nelle leggi sul lavoro sempre più precario.

Manifestiamo apertamente la nostra solidarietà alle compagne ed i compagni arrestate/i. L’ultimo pezzo di campo che stanno cercando di conquistare ora è la solidarietà, criminalizzandola, cercando di intimorirci a manifestarla. Cercano di creare dei banditi per rendersi più sceriffi. Sceriffi che dichiarano ormai pubblicamente “Ci vuole un po’ di scuola Diaz” per i manifestanti di Torino [cit: Alessandro Ciro Sciretti, consigliere leghista, 10/02/2019], ossia un po’ di tortura e di teste rotte o che augurano più volte trattamenti disumani, ma possibili e già accaduti nella storia, come “marcire in galera” [cit: Salvini, ministro dell’interno, 13/01/2019].

BASTA PERSONE CHIUSE DENTRO PRIGIONI, DENTRO CPR, DENTRO CONFINI!

LIBERE/I TUTTE/I E LIBERE/I SUBITO !

SABATO 2 MARZO, ALLE h. 14 DAVANTI AL CARCERE DI ALTA SICUREZZA DI TOLMEZZO CI SARÀ UN PRESIDIO IN SOLIDARIETÀ A DUE DEI RAGAZZI DETENUTI A TRENTO, RINCHIUSI LI. Invitiamo ad una partecipazione numerosa.

Le persone dell’Assemblea NoCPR-NoFrontiere e del Collettivo Tilt di Trieste

Qui la versione stampabile

Testo del volantino distribuito al presidio di Sabato 23 Febbraio

 


CROAZIA : SBIRRI D’EUROPA


Nel 2016, l’Unione Europea ha firmato un accordo con la Turchia con il quale esternalizza alla dittatura di Erdoğan la responsabilità di fermare con tutti i mezzi le persone che tentano di raggiungere l’UE via terra attraverso la rotta balcanica; in più, l’accordo dichiara la Turchia “Paese terzo sicuro” e quindi permette il respingimento delle persone dalla Grecia alla Turchia, in cambio di 6 miliardi di finanziamenti europei. Si tratta dello stesso meccanismo degli accordi Italia-Libia, che danno alle milizie libiche la responsabilità di fermare con tutti i mezzi le persone che tentano di raggiungere l’UE via mare, attraverso la cosiddetta Central Mediterranean route.

Nonostante l’accordo, e nonostante migliaia di persone siano in effetti ferme in Turchia e sulle isole greche, la rotta balcanica è aperta e in migliaia si muovono ogni giorno per arrivare in Europa. Oggi, migliaia di persone sono bloccate in Bosnia e Serbia e da lì tentano continuamente di attraversare i confini, a piedi o con altri mezzi. L’UE, per impedire alle persone migranti di entrare, ha iniziato da tre anni la pratica dei respingimenti, illegali secondo le stesse norme europee. Un respingimento (in inglese: pushback) consiste nel bloccare le persone in transito, non permettere che richiedano asilo e deportarle oltre il confine europeo. Spesso la pratica del respingimento illegale prevede anche atti di violenza fisica e verbale, a scopo deterrente, da parte di squadre organizzate della polizia croata. La polizia croata sequestra sistematicamente le persone, le deruba dei soldi e del cellulare e le manganella, anche se si tratta di bambine-i. Medina, una bambina di 6 anni, è stata ammazzata il 21 novembre 2017 in un respingimento verso la Serbia. Dal 2018, la Slovenia si è inserita strutturalmente in questo meccanismo, mentre l’Italia ha svolto alcune deportazioni, dimostrandosi così interessata a entrare sistematicamente nell’ingranaggio.

La Croazia – che entrerà nell’area Schengen nel 2020 – riceve continuamente finanziamenti dall’UE proprio per la gestione delle frontiere: ad oggi, ha ricevuto 23,3 milioni con clausola emergenziale – di cui 6,8 a dicembre – e 108 milioni attraverso altri fondi (Fondo asilo, migrazione e integrazione e Fondo sicurezza interna 2014-2020). “Croatia is our close friend”, ha dichiarato Angela Merkel lo scorso agosto, quando le denunce delle violenze erano già note.

La proposta per il prossimo bilancio a lungo termine UE (2021-2027) prevede un contributo di 21,3 miliardi di euro per la “protezione delle frontiere esterne”, la quale “si baserà sul lavoro svolto negli ultimi anni”. Parte di quei soldi dovrà essere usata anche per la “lotta contro il traffico di migranti”, cioè per intercettare i trafficanti, che sono le persone che sulla rotta balcanica speculano sull’esistenza dei confini chiusi, facendo pagare passaggi o informazioni. La caccia ai trafficanti nella rotta balcanica è in realtà soltanto un pretesto per distrarre l’attenzione dalla violenza della vita lungo la rotta e fingere che l’Unione Europea si stia adoperando a combattere una forma di criminalità che invece contribuisce ad alimentare. I trafficanti esisteranno finché per molte persone – appartenenti a certe nazionalità e classi sociali – non ci saranno vie legali per entrare in Europa: senza possibilità di ingresso regolare le persone continueranno ad affidarsi ai trafficanti e a morire lungo la rotta.

Oggi, chi vuole confini chiusi, sfruttamento e guerra è sempre più forte.

Siamo qui davanti al consolato croato per informare sulle violenze della polizia croata, la sistematicità dei respingimenti lungo la rotta balcanica, anche dall’Italia e la connivenza di tutti gli Stati europei. Siamo qui per dire che c’è una sola soluzione praticabile alla fine di questo ciclo di violenze: l’abbattimento delle frontiere e la libertà di movimento per tutt*. Siamo qui per incitare ad agire di conseguenza, nessun’altro lo farà per noi.

Assemblea no CPR-no frontiere

Siti di riferimento:

nofrontierefvg.noblogs.org (IT)

lungolarottabalcanica.wordpress.com (IT)

www.borderviolence.eu (EN)

www.nonamekitchen.org (EN)


INFORMAZIONI SULLO SGOMBERO DELLO SQUAT A SID (Serbia)

A Sid, al confine tra Croazia e Serbia, c’è un gruppo di attivisti solidali e  volontari dell’organizzazione indipendente “No Name Kitchen” . Persone che passano le giornate con chi cerca di attraversare la frontiera europea ma si rifiuta di permanere nei campi governativi serbi, fornendo cibo per cucinare assieme, docce, aiuto medico quando le persone tornano dopo un respingimento -sempre violento- svolto dalla polizia croata e slovena soprattutto -ma anche italiana- e altre poche cose di prima necessità. Il punto di ritrovo giornaliero tra attivisti e migranti era, da molto tempo, un vecchio edificio diroccato nella jungle di Sid, chiamato Squat, al cui interno vi erano anche alcune tende.

Il 20 febbraio è stato violentemente sgomberato, qui il resoconto della giornata, scrittoci da un attivista.


LA NOSTRA SOLIDARIETÀ E IL NOSTRO AFFETTO VANNO AI MIGRANTI E ALLE ATTIVISTE ED ATTIVISTI A SID.


All’alba, con il supporto di unità e mezzi non locali, la polizia di Šid inizia a muoversi in direzione della fabbrica abbandonata. Riceviamo le prime chiamate e richieste di aiuto dai migranti alle 6:40 e ci muoviamo immediatamente. Con il furgoncino cerchiamo di andare allo squat il più rapidamente possibile, e quando ci avviciniamo stimiamo a spanne che siano presenti 30-40 agenti e 15 tra furgoncini e pantere. Cerchiamo di entrare allo squat e registrare video, e subito veniamo fermati e condotti alla stazione di polizia locale, dove vediamo tutti i migranti dello squat. Stanno in un recinto, tranquilli ma sorvegliati da un ingente numero di poliziotti e incerti su quello che accadrà. Riusciamo ad avvicinarci e immediatamente riportano a metà tra il pashto e l’inglese:

“Khema, telephone, kampal, money: tool hatamdi. Police boxing” (Tende, telefoni, coperte, soldi: tutto finito. La polizia ci ha picchiati).
Alcuni zoppicano, altri tengono una mano sulla testa, sul volto o sugli arti. Evidentemente molti di loro sono feriti.
Nel frattempo 3 di noi sono in un ufficio della stazione di polizia, così che possiamo vedere tutto quello che succede nel giardino. La scena riporta alla mente i film ambientati in Germania attorno al 1942.

Ore 7:20: gli altri volontari, allertati dal gruppo delle 6:40, arrivano alla stazione di polizia

Un’altra volontaria si avvicina alla stazione di polizia per sorvegliare quello che sta accadendo all’interno. Riesce a vedere parte dei migranti chiusi nel recinto e sorvegliati. Cerca di avvicinarsi ma viene respinta. Poco dopo, altre quattro la raggiungono e due di loro decidono di provare a girare un video col telefono per segnalare eventuali violenze o irregolarità. Un agente di alto grado mima il gesto dell’indice che passa sul collo. A quel punto le due vengono trascinate dentro la stazione di polizia fino al cortile dove le persone sono ammassate dentro al recinto. Dalla finestra possiamo sentire che gli animi sono caldi, e riusciamo finalmente a vedere un vespaio di poliziotti chinati per terra, dal quale dopo qualche secondo emerge la figura di una delle due volontarie. La stessa cosa succede con l’altra, l’immagine è quella di una ragazza minuta strattonata per i capelli da almeno 4 agenti. Il più basso gira sul metro e ottantacinque per 85 chili. Gli strattoni non terminano, e in un paio di minuti le due vengono trascinate nell stessa nostra stanza. Una delle due viene letteralmente appesa al muro da un poliziotto evidentemente sovreccitato. La regge per il collo con una mano in modo tale che lei non riesce a respirare. Misuro questo agente, è nettamente più alto di me e io sono alto un metro e ottanta. La ragazza non supera il metro e sessanta. Seguono attimi di tensione che infine riusciamo a sedare.

Le tre volontarie che non erano entrate nella stazione di polizia vanno allo squat per cercare di limitare i danni: salvare le tende, le coperte e gli zaini, recuperare i cavi del sistema elettrico, le luci, e la tanica d’acqua dalla distruzione e per avvertire i migranti in procinto di tornare allo squat dal game di starci alla larga. Trovano i lavoratori dell’azienda incaricata di trarre tutti gli oggetti presenti allo squat in discarica, uno di loro inizia a registrare le volontarie e chiama al polizia. Le volontarie spiegano, sia ai lavoratori che ai poliziotti sopraggiunti, che tutto il materiale presente nello squat appartiene a No Name Kitchen e che si tratta di donazioni internazionali a carattere umanitaria. I 4 agenti stringono in mano il manganello. Le volontarie iniziano a caricare il nostro furgoncino con tutto quello che possono trovare, ma vengono nuovamente fermate dalla polizia, che ci spiega che lo sgombero è stato voluto dal proprietario e che ha chiesto che venga tutto rimosso. Comunque assicurano loro che potremo recuperare tutto il materiale, intatto, nel pomeriggio. (Questa mattina abbiamo contattato il proprietario che ci ha detto di essere allo scuro di tutto quanto). Le tre vengono poi fatte entrare in un furgoncino della polizia e condotte nella stazione di polizia e negate della possibilità di chiamare chicchessia, altri volontari, avvocato o ambasciata. Là il gruppo si ricompatterà.

Ore 9:30: tutti i volontari si trovano alla stazione di polizia e inizia il trasporto dei migranti nei campi serbi

Il gruppo di volontari si ricompatta nell’ufficio della stazione di polizia da dove si vede il cortile antistante. L’attenzione degli agenti è incentrata sui migranti, il nostro fermo pare essere dovuto a evitare che registriamo video o raccogliamo prove degli abusi e delle violenze. I nostri cellulari sono requisiti e riceviamo ripetuti ordini di sbloccarli affinché i video possano essere cancellati. Non abbiamo accesso a un avvocato nonostante le continue richieste. Chiediamo:

  • What are you going to do with our mobile phones?

  • Nothing special.

  • The same thing you did to the migrants’ phones?

  • Yes.

Tutti gli agenti, alla vista della ragazza che era stata palpata, minacciata e stretta per la gola contro il muro, cercano disperatamente di non ridacchiare. Non tutti ce la fanno. Un agente anziano, a un novellino, comunica in serbo:

  • Guarda quante ragazze da tutto il mondo, ne puoi scegliere una per questa notte.

L’aggressività degli agenti cresce nuovamente quando ci obbligano ad andare in una seconda stanza per essere denudati, controlli supplementari. Il nostro sospetto è che mirino all’umiliazione e non al controllo di sicurezza, e quindi cerchiamo di rifiutarci per quanto possiamo. Quando viene detto esplicitamente che la procedura sarà attuata anche in modo coatto finalmente accettiamo. A una a una le volontarie vengono condotte in una stanza e spogliate. Quando arriva il mio turno (sono un ragazzo), mi alzo ma vengo fermato: i controlli non sono necessari. A questo punto ci guardiamo tutte quante, è evidente che non ci siano dubbi attorno alla nostra eventuale pericolosità perché io non vengo in nessun momento controllato (dentro le mie tasche avrei potuto avere qualsiasi cosa al posto del portafoglio) e che i controlli abbiano seguito il solo criterio dell’identità di genere. Erano mirati all’umiliazione. Rimaniamo nella stazione di polizia fino all’una, in attesa che il trasporto dei migranti sia completo.

Il giorno dopo

Le nostre considerazioni su quanto accaduto ieri sono concordanti. La violenza della polizia sui migranti è inutile, lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere senza l’impiego della forza. Privarli dei pochi beni che possiedono significa gettarli ulteriormente nell’indigenza. Gli abusi subiti dalle due volontarie (così come quelli subiti dai migranti, dei quali siamo ancora a conoscenza di una minima parte a dire il vero) si sono verificati da un lato per una scarsissima sensibilità dell’intero personale della polizia di Šid in tema di diritti civili e umani, e dall’altro per lo stato d’animo sovreccitato e assai poco professionale degli agenti che si sono mostrati, quando non aggressivi, ilari ed elettrizzati. La nostra pericolosità sta nella possibilità di far uscire la notizia attraverso le nostre testimonianze e i video. Se decideremo di pubblicarli sappiamo che soffriremo delle ripercussioni, perché agli agenti, coscienti non poterli eliminare permanentemente, hanno già avanzato le minacce del caso. La loro azione è stata possibile unicamente perché i rapporti di forza tra noi, i migranti e loro non corrispondono ai limiti stabiliti dalla legislazione serba. Durante tutto il corso della giornata il personale dei campi, che pure ci tiene a precisare di appartenere al commissariato e non alle forze di polizia, si è mostrato a tratti cosciente degli abusi della polizia ma connivente, a tratti complice e aggressivo. In generale, raccogliere le informazioni dei migranti esclusivamente nei campi risponde ad una logica perversa: se la presenza di campi si rende necessaria in contesti di emergenze umanitarie per distribuire generi di prima necessità e proteggere gli esodati, nei Balcani i campi si rendono utili unicamente per spostare i migranti lontano dalle città.

 

Domenica 3 Marzo h. 17:00 Bar Knulp

PRESESENTAZIONE E MOSTRA SUGLI INTERESSI ITALIANI IN LIBIA

La Libia è stata colonia italiana dal 1911 alla Seconda guerra mondiale: un territorio che ha resistito ininterrottamente al tentativo di penetrazione e soggiogamento dei colonialisti liberali e poi fascisti. Oggi è il punto di convergenza delle rotte migratorie africane ed è anche la terra più ricca di petrolio (38% del petrolio africano) e più politicamente instabile dell’Africa mediterranea. Capire cosa succede lì è fondamentale per affrontare il discorso migratorio da un punto di vista strutturale e anti-retorico.

In questo incontro, ricostruiremo la storia della «cooperazione» tra Italia e Libia nel contrasto dei movimenti migratori irregolari (ad es., attraverso la cessione di mezzi di pattugliamento, la costruzione di lager detentivi e il progetto della costruzione di un muro alla frontiera meridionale), ripercorrendo tutti gli accordi ufficiali, non ufficializzati e segreti firmati a partire dal 2003. Faremo una mappatura delle aziende italiane presenti sul territorio libico, che muovono miliardi di dollari con l’estrazione del petrolio e del gas e con la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali, e parleremo in particolare del ruolo geopolitico dell’ENI. Racconteremo come le stesse milizie che presidiano i pozzi petroliferi e che si sono arricchite per mesi con il «traffico illegale» di persone siano ora pagate dall’Italia per impedirlo.

La storia e il presente della Libia mostrano con violenza come la questione migratoria contemporanea sia all’incrocio di equilibri economici e geopolitici e muova capitali e guerre di potere e di influenza. La destabilizzazione politica e sociale portata avanti dai Paesi a capitalismo avanzato nei Paesi dai quali provengono i flussi migratori è la causa fondante della necessità delle persone di spostarsi.

L’atteggiamento di umanitarismo pietista verso le persone migranti è allora pericoloso quasi quanto la chiusura razzista, perché allo stesso modo non ne riconosce la piena capacità di decidere per sé stesse e le pone a un livello inferiore della gerarchia degli esseri umani.

Al contrario, partiamo dalla presa di coscienza delle responsabilità dirette del modello «di sviluppo» italiano, e non solo, nella devastazione neocoloniale di una parte del mondo – la parte da dove si è costrette/i a partire. E iniziamo a muoverci di conseguenza.

Qui il volantino

Croazia sbirri d’europa 23 febbraio h. 16:00 Piazza Goldoni

Qui il volantino

La rotta balcanica si fa sempre più pericolosa: i respingimenti il-legali sono una prassi quotidiana messa in atto tramite il coordinamento delle polizie bosniaca, serba, croata, slovena e alle volte italiana.

Nel 2016, l’Unione Europea ha firmato un accordo con la Turchia con il quale esternalizza alla dittatura di Erdoğan la responsabilità di fermare con tutti i mezzi le persone che tentano di raggiungere l’UE attraverso la rotta balcanica; in più, l’accordo dichiara la Turchia “Paese terzo sicuro” e quindi permette il respingimento delle persone dalla Grecia alla Turchia, in cambio di >3 miliardi di finanziamenti europei.

Nonostante l’accordo, e nonostante migliaia di persone siano bloccate in Turchia e sulle isole greche, la rotta balcanica è aperta e migliaia di persone si muovono ogni giorno. Oggi, migliaia di persone sono bloccate in Bosnia e Serbia e da lì tentano continuamente di attraversare i confini, a piedi o con altri mezzi.

Ogni giorno l’UE respinge le persone in transito ai suoi confini. La Croazia – che entrerà nell’area Schengen nel 2020 – riceve continuamente finanziamenti dall’UE (ad oggi, > 6 milioni di euro) per deportare le persone migranti in Bosnia e Serbia.

La polizia croata sequestra le persone, le deruba dei soldi e del cellulare e le manganella, anche se si tratta di bambine-i. La polizia croata si coordina con la polizia slovena e, a volte, quella italiana: le persone che arrivano in Italia o Slovenia vengono sequestrate e consegnate alla polizia della frontiera precedente. Tutte le polizie e tutti gli Stati lungo la rotta sono colpevoli.

Sabato 23 febbraio saremo di fronte al Consolato croato a Trieste per denunciare questa violenza sistemica dell’Unione Europea, esercitata dalla polizia croata, e le responsabilità dell’Italia e dell’UE.

Saremo lì per dire che c’è una sola soluzione alla fine di questo ciclo di violenze: la distruzione delle frontiere e la libertà di movimento per tutt*.

Siti di riferimento:
lungolarottabalcanica.wordpress.com (IT)
www.borderviolence.eu (EN)
www.nonamekitchen.org (EN)


Balkanska pot postaja vse nevarnejša: i-legalne zavrnitve so vsakodnevna praksa, ki se izvaja s koordinacijo bosanske, srbske, hrvaške, slovenske in včasih tudi italijanske policije.

Leta 2016 je Evropska unija s Turčijo podpisala sporazum s katerim eksternalizira Erdoğanovi diktaturi odgovornost preprečitve nadaljnje poti ljudem, ki poskušajo doseči EU po balkanski poti, z vsemi sredstvi; poleg tega sporazum določa, da je Turčija “varna tretja država” in torej dopušča zavračanje ljudi iz Grčije v Turčijo v zameno za več kot 3 milijarde € evropskih sredstev.

Kljub dogovoru in kljub tisočim ljudem blokiranih v Turčiji in na grških otokih je balkanska pot odprta in na tisoče ljudi se vsak dan premika po njej. Dandanes je na tisoče ljudi blokiranih v Bosni in Hercegovini in Serbiji in od tam nenehno poskušajo prečkati meje peš ali z drugimi sredstvi.

EU vsak dan zavrača ljudi na prehodu njenih mej. Hrvaška, ki bo na schengensko območje vstopila leta 2020, prejema sredstva EU (do danes več kot 6 milijonov €) za deportacije migrantov v Bosno in Srbijo.

Hrvaška policija ugrablja ljudi, jim vzame denar in telefone, jih pretepa, četudi gre za otroke. Hrvaška policija se usklajuje s slovensko policijo, in včasih, tudi z italijansko: ljudje, ki pridejo v Italijo ali Slovenijo, so ugrabljeni in predani policiji prejšnje države. Vse policije in vse države balkanske poti so krive za to.
V soboto, 23. februarja, bomo pred hrvaškim konzulatom v Trstu obsodili to sistemsko nasilje Evropske unije, ki ga izvaja hrvaška policija, in odgovornost Italije in EU.

Tam bomo da rečemo, da obstaja samo ena rešitev, da se ta krog nasilja konča: uničenje meja in svoboda gibanja za vse.


Balkanski put postaje sve opasniji: ilegalna odbijanja su svakodnevna praksa koja se provodi kroz koordinaciju bosanske, srpske, hrvatske, slovenske i ponekad talijanske policije.
2016. godine Europska unija i Turska potpisale su sporazum u kojem Erdoganova diktatura preuzima svim sredstvima odgovornost za sprečavanja ljudi koji pokušavaju doći do EU balkanskim putem; Štoviše, sporazum predviđa da je Turska “sigurna treća zemlja” i stoga omogućuje vraćanje ljudi iz Grčke u Tursku, u zamjenu za više od 3 milijarde eura iz europskih fondovima.

Unatoč sporazumu i unatoč tisućama ljudi koji su blokirani u Turskoj i na grčkim otocima, balkanski put je otvoren i tisuće ljudi se njime kreće svaki dan. Danas je tisuće ljudi blokirano u Bosni i Hercegovini i Srbiji odakle stalno pokušavaju prijeći granicu pješice ili drugim sredstvima.

EU svaki dan odbacuje ljude koji prelaze njezine granice. Hrvatska, koja će ući u schengensko područje 2020. godine, prima sredstva EU (do sada više od 6 milijuna eura) za deportaciju migranata u Bosnu i Srbiju.

Hrvatska policija hapsi ljude, uzima novac i telefone, tuče ih, čak i ako su djeca. Hrvatska policija koordinira rad sa slovenskom policijom, a ponekad i s talijanskom: ljudi koji dolaze u Italiju ili Sloveniju su uhapšeni i predani policiji na prethodnoj granici. Za to su krivi svi policajci i sve balkanske zemlje.

U subotu, 23. veljače, osudit ćemo sustavno nasilje Europske unije koje provodi hrvatska policija i odgovornost Italije i EU pred hrvatskim konzulatom u Trstu.

Tamo ćemo reći da postoji samo jedno rješenje kojim se završava ovaj ciklus nasilja: uništavanje granica i sloboda kretanja za sve.


The Balkan route becomes increasingly dangerous: il-legal pushbacks are a daily practice implemented through the coordination of the Bosnian, Serbian, Croatian, Slovenian, and (sometimes) Italian police.

In 2016, the European Union signed an agreement with Turkey with which it outsources the dictatorship of Erdoğan the duty to stop by all means migrant people moving to Europe; moreover, the agreement declares Turkey as a “safe third country” and therefore allows people to be pushbacked from Greece to Turkey, in exchange for >3 billion European funding.

Despite the agreement, and despite thousands of people being trapped in Turkey and on the Greek islands, the Balkan route is still open and thousands of people are moving every day. Today, thousands of people are stuck in Bosnia and Serbia and from there they still try to cross borders, on foot or in other ways.

Every day the EU rejects people in transit at its borders. Croatia – which will enter the Schengen area in 2020 – continuously receives funding from the EU (up to now, more than 6 millions euros) to deport migrants to Bosnia and Serbia.

The Croatian police kidnap people, rob their money and mobile phones and beat them, even if they are minors. Croatian police coordinate with Slovenian and sometimes Italian police: people arriving in Italy or Slovenia are kidnapped and handed over to the police of the previous border. Every police and every state along the route are guilty.

On Saturday 23 February we will be in front of the Croatian Consulate in Trieste to denounce this systemic violence of the European Union, carried out by the Croatian police, and the responsibilities of Italy and the EU.

We will be there to say that there is only one way to end of this cycle of violence: destruction of every border and freedom of movement for everyone.

References:
www.borderviolence.eu (EN)
www.nonamekitchen.org (EN)

Solidarietà a Torino

A Torino, si sta sgomberando l’Asilo di via Alessandria (occupato dal 1995). Si stanno cercando 5 persone per “associazione con finalità sovversive” (art. 270bis) per eventi del 2016 legati alla lotta contro il CIE. La resistenza alla costruzione dei lager di Stato diventa così – per lo Stato – una forma di terrorismo. Mandiamo la nostra solidarietà a chi viene perseguitato dalla legge per aver scelto di stare dalla parte giusta.

Info live su Radio Blackout 105.250: https://radioblackout.org/…/sgomberi-e-arresti-a-torino-ag…/

I CPR sono lager di Stato: no ai CPR né a Gradisca né a Torino né altrove!