OLTRE QUELLE MURA: a fianco dei reclusi di Gradisca, di Jamal, dei compagni/e arrestati/e a Malpensa

Il pomeriggio del 24 marzo siamo stati/e sotto le mura del Cpr di Gradisca d’Isonzo per far arrivare la nostra solidarietà ai reclusi in un centro che da mesi vede succedersi continuamente rivolte, atti di ribellione, tentativi di evasione e fortunatamente anche molte fughe riuscite.
Se la zona più vicina all’accesso, quella dalla quale normalmente era più facile udire le voci dei prigionieri, questa volta è rimasta completamente silenziosa, poco dopo esserci spostati/e sul retro ci è arrivata distintamente per molti minuti la rabbiosa risposta dei reclusi in quell’ala, con urla e battiture, prima che anche queste venissero ridotte al silenzio.

Nel campo di Gradisca, dalla sua riapertura alla fine del 2019, sono morte da quel che si sa 4 persone: Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, Anani Ezzedine e Arshad Jahangir. La sua gestione è ancora in mano alla cricca di aguzzini preferita della prefettura di Gorizia, e cioè la cooperativa Ekene di Battaglia Terme (Padova), il cui capo Simone Borile è finito rinviato a giudizio per “omicidio colposo” per la morte nel gennaio 2020 di Vakhtang Enukidze, in realtà ucciso di botte dalle guardie.

La deportazione di Jamal, imprigionato per alcuni giorni a Gradisca prima di essere deportato in Marocco – come tutte le deportazioni che avvengono ogni settimana – non spengono la lotta, ma semmai le donano ancora più forza, nella spinta a far sì che tutti i lager di Stato vengano distrutti.
Le lotte presenti e passate, non solo contro i campi di deportazione, ci dicono che la solidarietà e il supporto alle rivolte è tanto doverosa e necessaria quanto l’attacco diretto ai responsabili e ai complici – persone, aziende, enti, istituzioni – dell’esistenza di questi luoghi, coloro il cui operato ne rende concreto e possibile il funzionamento.
Ci sono e ci saranno momenti di angoscia e scoramento, ma le continue evasioni, le continue azioni di rivolta e distruzione interne ai campi, l’azione determinata e coraggiosa dei reclusi che hanno chiuso il Cpr di Torino, dei compagni/e che a Malpensa hanno bloccato la deportazione in atto e di quelli/e che a Caltanissetta si sono messi di traverso, ci dicono che “la macchina delle espulsioni vorrebbe sembrare, ed essere mostrata, come un’inattaccabile fortezza costruita sulle fondamenta del razzismo” ma che a volte “basta poco a tirare giù il muro disumanizzante che silenzia la violenza e avvalla l’inaccettabile”.

Ci uniamo ancora alle parole seguite agli arresti del 20 marzo, “tutto ciò che è successo a Torino e a Malpensa è potenzialmente replicabile e riproducibile. La lotta contro la macchina delle espulsioni e la detenzione amministrativa è possibile ed è reale nei suoi obbiettivi e nelle sue prospettive. Sappiamo che alla repressione si risponde con la lotta come ci insegna la resistenza palestinese tutti i giorni”.

La nostra solidarietà va a tutti/e i/le reclusi/e, a Jamal che oggi si trova in Marocco, a Josto, Ele, Miri, Peppe, a tutti/e i compagni/e prigionieri/e e in ogni modo privati della loro libertà

FUOCO AI CPR
FUOCO A TUTTE LE GALERE

TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

compagne e compagni

Dalla parte di chi prova ad abbattere quelle mura

Qualche giorno dopo il weekend di mobilitazione contro i CPR e le frontiere, ci teniamo a condividere alcune considerazioni su questi due giorni.

Chi ha partecipato e portato i generi di prima necessità ai reclusi non lo ha fatto per spirito di carità, ma perché ha intimamente capito che in quel luogo di tortura i pacchi che abbiamo consegnato possono trasformarsi in mezzo per allargare le maglie di un sistema che attraverso privazioni e violenza si traduce in tortura.

Il cibo che abbiamo messo dentro a quei pacchi potrà forse aiutare qualcuno a rifiutarsi di mangiare il cibo fornito all’interno del CPR da Ekene, la cooperativa che lo gestisce. Dentro quelle razioni – a Gradisca come negli altri CPR – vengono infatti nascosti psicofarmaci volti ad ammansire i prigionieri (o ospiti, come li chiamano loro). Da qui il significato politico dei generi alimentari, non abbiamo mai voluto rendere più vivibile quel centro di tortura amministrativa.

Un grande grazie anche alle compagne che sono venute a presentarci I CPR si chiudono col fuoco. L’opuscolo (disponibile qui) presenta le testimonianze delle persone rinchiuse e delle rivolte che quest’inverno hanno bruciato molte sezioni del CPR di corso Brunelleschi fino a provocarne la chiusura.

Noi siamo convinte: le affinità politiche più strette si legano attraverso la condivisione delle pratiche di lotta, e per questo ci teniamo a rimandare alla prossima chiamata nazionale, il Passamontagna del 4-5-6 Agosto. Invitiamo chi può a essere presente: la pretesa sovranità degli Stati sui confini nazionali si spezza attraversandoli.

Segnaliamo poi una vicenda estremamente grave, a dimostrazione che la mobilitazione e la solidarietà sono sempre più necessarie per rompere quello stato di invisibilità e isolamento in cui i CPR sono confinati. Nei contatti avvenuti in questi giorni con l’interno abbiamo infatti scoperto che una persona tunisina è in sciopero della fame da tre settimane e negli ultimi giorni è stato portata in ospedale a seguito di atti di autolesionismo. Ieri sera è stato riportato al CPR, ma in una cella e in un’area distanti dai compagni che, in solidarietà, avevano iniziato a rifiutare il cibo. È la seconda volta che intraprende il digiuno nell’ultimo mese, in segno di protesta verso la detenzione arbitraria a cui è sottoposto. Ha avuto problemi politici in Tunisia a seguito delle rivolte della primavera araba, ma nonostante questo la sua richiesta asilo è stata respinta come “pretestuosa”.

Ma le voci dai CPR, per chi vuole ascoltare, parlano di abusi costanti e di persone che nonostante tutto non si piegano: le proteste e le rivolte sono continue, anche se rimangono nel silenzio colpevole di quelle quattro mura. Sta anche a noi farle risuonare, portando solidarietà e appoggio.

Ringraziamo anche per questo le forze dell’ordine, la Prefettura di Gorizia e la cooperativa Ekene che, gelosi di mantenere le persone rinchiuse, sedate e isolate, hanno negato con la forza al presidio di spostarsi sotto le mura del CPR e, sempre con la forza, hanno impedito ai reclusi di far uscire le loro voci da quelle stesse mura.

Come ribadito più volte durante i dibattiti, le persone rinchiuse sono pienamente consapevoli dell’ingiustizia e della violenza che sono costrette a subire all’interno del CPR, tanto da arrivare al punto di mettere a repentaglio il proprio futuro e le proprie stesse vite per far cadere quel muro. C’è chi ha rischiato il rimpatrio per far uscire la testimonianza di un omicidio, c’è chi ha rischiato la pelle per distruggere le mura, il ringraziamento più grande va a loro. Il bisogno profondo di libertà è più potente dell’oppressione quotidiana e soffocante, e il minimo che possiamo fare da fuori è sostenere e amplificare queste voci e questa lotta che riguarda tutti e tutte.

Solidali con chi subisce la violenza dei CPR e delle frontiere e dalla parte di chi prova ad abbattere queste mura.

Scritto con Burjana  https://laburjana.noblogs.org/post/2023/07/13/dalla-parte-di-chi-prova-ad-abbattere-quelle-mura/

Abbiamo il nome e l’orrore continua

Arshad Jahangir, così si chiama il ragazzo morto nel CPR di Gradisca il 31 agosto 2022, come ha diffuso il comune. Sopravvissuto all’attraversamento delle frontiere per entrare in Europa (che non sappiamo come sia avvenuto) e alle difficoltà della ricerca di un permesso di soggiorno, è il CPR di Gradisca il luogo che, nella sua atrocità, gli ha fatto provare ad uccidersi, e a farcela, nell’assenza di soccorsi e cura che vige nel centro. È il quinto morto sotto la gestione delle cooperative di Simone Borile: quattro nel CPR di Gradisca negli ultimi due anni e mezzo, una prima, a Conetta.

L’orrore del CPR si esprime in continuazione, ogni volta che si decide di ascoltarlo, nell’omertá di media ed istituzioni, chiedendo una notizia da dentro. Oggi, ci raccontano, un ragazzo ha provato a farsi male e ha perso i sensi; ci chiedono di diffondere la sua foto, perché non siano gli unici a sapere.

Tutti e tutte sappiamo, prendiamocene le responsabilità. Se ognuno/a fa qualcosa, nei modi che ritiene opportuni, quel centro chiuderà.

 

Nessun soccorso – nessuna risposta

Da dentro al lager di gradisca i detenuti ci comunicano che altre due persone hanno tentato il suicidio nelle ultime 48 ore, ma che fortunatamente sono state salvate dai compagni di cella. Ci inviano moltissimi video della loro rivolta ma in particolare pubblichiamo questo, girato ieri, 5 settembre 2022, in cui si vedono i detenuti di una cella chiamare i soccorsi, urlando e sbattendo le porte, mentre un compagno di stanza é incosciente e altri cercano di aiutarlo.

I soccorsi non arrivano.

Queste notizie devono girare, raggiungere il dibattito pubblico, perché possano contribuire a far chiudere questi lager.

Ricordiamo che chi fa uscire queste informazioni mette a repentaglio la sua sicurezza e la sua possibilità di rimanere in italia, accanto ai suoi cari.

Facciamo tesoro di questa generosità, non ignoriamo i cpr.

 

A Gradisca si muore: sappiamo chi è Stato

Due giorni fa, il 31 agosto 2022, un ventottenne pakistano del quale non sappiamo il nome si è ammazzato nel Cpr di Gradisca d’Isonzo. Era entrato un’ora prima.

Si è ammazzato in camera; l’hanno trovato i suoi compagni di reclusione.

Voci da dietro al muro

Da dietro le mura del CPR ci gridano che il ragazzo pakistano «ha fatto la corda» subito dopo l’incontro con il Giudice di pace di Gorizia che aveva confermato la sua permanenza nel centro per tre mesi. Ci chiedono di dire che si è ucciso dalla disperazione per quella scelta sulla sua vita. Ci dicono che era nella zona blu, dove tolgono i telefoni e dove vanno le persone appena entrate. I detenuti ci dicono che gli operatori del centro tengono loro nascosto il nome del ragazzo, nonostante le loro richieste.

Ci raccontano che molti, dopo le udienze con il Giudice di pace, si sentono male e altri hanno provato a impiccarsi, salvati poi dai compagni di stanza. Raccontano che in quei momenti si sta molto male e si perde la testa. Ci raccontano che è peggio di qualsiasi carcere e che nel cibo vengono messi psicofarmaci. Ci chiedono che parlamentari e giornalisti raccontino quello che succede realmente nei CPR ed entrino.

Chi ci parla ci dice di temere per la sua incolumità per quello che ci sta raccontando. Ci dice che si sta esponendo per tutti ma che i militari lo stanno guardando. Ci fornisce il suo nome e indirizzo perché teme per la sua vita, per il solo fatto di raccontare quello che succede. E noi lo sappiamo bene, ricordiamo come fosse ieri le deportazioni seriali e il sequestro immediato dei telefoni di tutti i detenuti che avevano testimoniato la notte della morte di Vakhtang.

Qui di seguito pubblichiamo due dei molti video ricevuti da dentro: un video a riguardo è stato pubblicato anche ieri da LasciateCIEntrare.

Repressione della solidarietà (con pistola puntata)

La sera del primo settembre, alcuni solidali sono passati davanti al Cpr per mostrare solidarietà ai reclusi e ascoltare le loro voci sulla morte del ragazzo pakistano. Mentre stavano lì, è arrivata una volante dei carabinieri, chiamata dal personale del Cpr insospettito dalla presenza di alcune persone fuori da quelle mura. 

Da una delle volanti, è uscito un carabiniere che ha cominciato a correre, non molto velocemente, puntando la pistola contro uno dei solidali. Le persone sono state perquisite e i cellulari sequestrati momentaneamente. Dopo un po’ di tempo, i solidali sono stati portati in caserma per essere identificati, dove hanno avuto la convalida del fermo di dodici ore. In caserma, uno dei solidali è stato costretto a una perquisizione integrale e a spogliarsi completamente.

L’esistenza del Cpr necessita del silenzio: la sola presenza di qualcuno nelle sue vicinanze origina sospetto e si tramuta in fermi, perquisizioni e, come successe ad altri solidali nel 2019, fogli di via dal territorio comunale. Il Cpr è istituzionalmente un luogo del quale bisogna ignorare l’esistenza, anche nei giorni in cui ammazza qualcuno. 

La violenza dell’arma puntata non ha alcuna giustificazione: la reazione poliziesca spropositata di fronte a un ragazzo bianco che non stava commettendo nessun reato ci interroga su quale sia il livello di soprusi al quale sono costrette ogni giorno le persone che non hanno la tutela della cittadinanza. Gli abusi di potere e la violenza razzista istituzionale tengono in piedi i Cpr ogni giorno.

Il commento indegno della garante

La Garante per i diritti delle persone recluse del comune di Gradisca, Giovanna Corbatto, commenta sul Messaggero veneto: «Non sappiamo se e quali fantasmi si portasse dietro, se la sua drammatica decisione sia stata pianificata o improvvisata, se avesse patologie. Avendo trascorso solo un’ora al Cpr sarei prudente nel citare le condizioni di vita all’interno come causa o concausa di un gesto così estremo».

Il meccanismo messo in atto da Corbatto è quello della colpevolizzazione della vittima (victim blaming): di fronte a un ragazzo che si è ammazzato dentro una struttura sulla decenza della quale lei stessa dovrebbe sorvegliare, Corbatto si rifiuta di riconoscere le responsabilità istituzionali e dà letteralmente la colpa alla vittima.

Il Cpr è uno spazio letale: si tratta di un dato innegabile, confermato dal susseguirsi delle morti. Chi muore lì dentro, in qualunque modo muoia, è un morto istituzionale, cioè un morto di Stato.

Quasi tre anni di un luogo letale

Nel lager di Gradisca dIsonzo, sono già morte troppe persone.

07/12/2021: Ezzeddine Anani, uomo marocchino di 41 anni, si toglie la vita nella cella in cui era recluso in isolamento per quarantena Covid.

14/07/2020: Orgest Turia muore in seguito a un’overdose e un suo compagno di stanza scampa alla stessa sorte. Mentre il prefetto di Gorizia Marchesiello dice che tutto va bene, dapprima la stampa locale diffonde la voce di una nuova morte per rissa, poi la sindaca Tomasinsig e rappresentanti della polizia ripropongono la narrazione infame dei detenuti tossici e dello spaccio di sostanze all’insaputa dei carcerieri. In realtà, Turia non è tossicodipendente, è un uomo di origini albanesi portato in Cpr perché trovato senza passaporto.

18/01/2020: Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano trentottenne, viene ammazzato, secondo i testimoni, dalle botte ricevute dalle guardie armate della struttura. A seguito della sua morte tutti i testimoni vengono deportati, i loro cellulari sequestrati, la famiglia di Vakhtang Enukidze in Georgia subisce forti pressioni per non prendere parte a un processo penale e, ad oggi, non è stato comunicato alcun esito ufficiale dell’autopsia sul corpo.

30/04/2014: Majid el Khodra muore in ospedale a Trieste, dopo mesi di coma, dopo una caduta dal tetto dell’allora Cie di Gradisca, ad agosto dell’anno precedente. Ai suoi familiari viene negata per mesi la possibilità di vederlo. Dopo la sua morte, il Cie chiude, per riaprire qualche anno dopo con il nuovo nome di Cpr.

L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci ricorda che ad ammazzare non sono mai «i fantasmi»: sono le leggi, le istituzioni, i rappresentati razzisti dello Stato. L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci dice che quel posto, che è stato voluto da tutti i governi, non è riformabile. Ci richiama a mobilitarci perché, se il Cpr continuerà a esistere, la gente continuerà a morirci dentro.

Migrant lives matter.

Autolesionismo e mancato soccorso nel CPR di Gradisca

In queste ultime ore, da dentro il CPR di Gradisca escono storie di violenza, autolesionismo e mancato soccorso.

Un video pubblicato su un gruppo facebook di persone tunisine in Italia mostra due persone a terra, in mezzo al sangue, dopo essersi procurate dei tagli (TW: sangue, autolesionismo). L’autolesionismo è una pratica di resistenza spesso utilizzata dai reclusi, che sono privati di ogni altra maniera di denunciare la propria situazione e rivendicare il proprio desiderio di libertà.

Dentro è un inferno, i reclusi ci raccontano che vengono trattati di merda, non escono mai dalle gabbie e non vengono portati in ospedale neppure quando i medici che li visitano nel CPR dicono che dovrebbero andarci.

In questo caso, si è dovuta aspettare più di un’ora per i due uomini che stavano perdendo molto sangue. Per ora, le voci su cosa sia successo non sono confermate.

Il deputato tunisino Majdi Karbai, che spesso ha raccontato la situazione dei tunisini in Italia, ha scritto oggi in un post di aver contattato il Garante per i diritti delle persone detenute e dei funzionari del ministero della Giustizia al fine di aprire un’indagine su quanto è successo ieri a Gradisca.

Intanto, pochi giorni fa è stato il secondo anniversario della morte di Vakhtang Enukidze, morto a un mese dalla riapertura del CPR, dopo un pestaggio poliziesco. Dopo di lui, dentro la galera etnica di Gradisca, sono morti anche Orgest Turia, nell’estate 2020, e Ezzedine Anani, il mese scorso. Ezzedine, tunisino, se non fosse morto, sarebbe stato deportato direttamente in Tunisia, come avviene con tutti i suoi concittadini che da Gradisca, bisettimanalmente, vengono rimandati nel luogo dal quale hanno scelto di andarsene.

Voci dal Cpr: siamo in sciopero della fame!

Ieri, 19 dicembre 2021, ci siamo ritrovate assieme a compagni e compagne da tutta la regione sotto il lager di Gradisca. La morte di B.H.R. pochi giorni fa, la terza da quando il CPR ha riaperto il 17 dicembre di due anni fa, non poteva rimanere sotto silenzio.

Come sempre uno degli obiettivi dell’iniziativa era farsi sentire dai reclusi per comunicare loro la nostra solidarietà e vicinanza. Nonostante la questura avesse come sempre relegato il presidio al lato opposto della strada, un cospicuo gruppo di partecipanti al presidio si è spontaneamente spostato davanti al lager urlando slogan e ricevendo una risposta da dentro. Le voci gridavano: libertà!

Mentre cercavano di comunicare con l’esterno, alcune persone recluse sono state minacciate di venir denunciate se avessero continuato a comunicare con i solidali.

Oggi abbiamo scoperto che dentro al CPR, ci sono diverse persone in sciopero della fame, almeno tre in zona verde e qualcuno in zona rossa. Uno non mangia da tre giorni, altri hanno iniziato tra ieri e oggi. Da dentro, chiedono di condividere fuori la notizia del loro sciopero; la rivendicazione è la libertà, tutti vogliono uscire da lì.

Nel frattempo, la rete No Cpr di Milano ha riportato nuove notizie sul suicidio avvenuto nel Cpr di Gradisca, che riportiamo qui sotto anche se non abbiamo ancora avuto modo di confermarle:

La notte tra il 5 ed il 6 dicembre 2021 avevamo diffuso la notizia di un giovane suicidatosi nel CPR di Gradisca di Isonzo. Si pensava inizialmente si trattasse di un marocchino. Si tratta invece di un cittadino tunisino di 44 anni. Il suo nome è Anani Ezzeddine. La famiglia è stata informata prontamente dalle autorità competenti; anche loro chiedono di comprendere le ragioni del suicidio. In questi giorni sempre nel CPR di Gradisca diverse sono state le segnalazioni di persone che hanno tentato il suicidio, che sono state salvate e sostenute dai compagni di cella. Nel caso di Anani non c’è stato nulla da fare.

Ieri, mentre noi eravamo a Gradisca, altre persone si sono mobilitate sia contro il CPR di Milano sia contro il CPR di Ponte Galeria, vicino a Roma.

Contro tutti i lager, contro tutti i confini.

[L’immagine rappresenta una scritta sull’asfalto, che dice: “Vakhtang, Orgest, BHR, morti di Stato”. La scritta è apparsa ieri al termine del presidio, davanti al CPR.]

 

Testimonianze dal CPR di Gradisca, a due giorni dalla morte di R.

Ieri, 8 dicembre 2021, alcune decine di solidali hanno deciso di ritrovarsi sotto le mura del CPR di Gradisca d’Isonzo da dove il giorno prima era uscita la notizia del suicidio di un uomo marocchino rinchiuso in isolamento, per gridare la propria solidarietà e vicinanza ai reclusi.

Del ragazzo morto sappiamo, per ora, poco: pare che il suo nome iniziasse per R. e che portasse i dread lunghi. Era marocchino ed era arrivato da poco; era stato rinchiuso in isolamento per quarantena.

Alcune notizie sulla morte di R. ci arrivano da un video pubblicato su facebook da Campagne in lotta, che trascriviamo in parte qui sotto:

«Due sere fa, un ragazzo tunisino o marocchino è stato con noi in camera, però dopo l’hanno spostato da solo. Quella notte lì lui si è suicidato, hai capito? La mattina ci siamo svegliati e abbiamo chiesto di lui e ci hanno detto che lui stava male e l’avevano portato all’ospedale. Però ci sono altri ragazzi della stanza di fronte a lui che mi hanno detto che lui era morto, l’hanno portato morto già. Loro hanno detto che stava male e per quello l’hanno portato in ospedale, ma non hanno raccontato la verità, hai capito?»

Piano piano, stiamo riallacciando i rapporti con le persone che sono chiuse dentro il CPR. Ci hanno raccontato che dentro nessuno racconta loro nulla di ciò che succede. Alcuni operatori sono africani, come molte delle persone rinchiuse, ma questo non permette di creare rapporti di solidarietà («sono africani ma sono peggio della polizia!»).

Le persone hanno varie origini: Alcuni vengono direttamente dalle navi quarantena e vengono subito rimpatriati: si tratta soprattutto di tunisini e marocchini. Ci sono anche africani neri, arabi, serbi, kosovari, «tutti quelli che non vengono nell’unione europea».

I reclusi hanno a che fare con medici, alcuni «bravi, altri razzisti», «alcuni che non ti cagano e altri che ti cagano ma quando ti cagano se ne fregano».

Nelle celle ci stanno dodici persone; nella zona di isolamento in ogni cella ci stanno otto persone. Nelle celle c’è molto freddo, non c’è riscaldamento e ci sono delle finestre rotte, quindi di solito passano le giornate nella parte esterna delle stesse e accendono fuochi per scaldarsi con quello che trovano a disposizione. Ieri erano tutti dentro a causa della pioggia, le finestre, se non sono rotte, sono blindate.

Altre notizie sulla vita nel CPR ci arrivano dal video pubblicato da Campagne in lotta, del quale trascriviamo una seconda parte qui sotto:

«Vedi qua io ho sistemato questa porta mettendo lo scotch e la plastica per il freddo. La finestra era rotta. Abbiamo un amico che lavora qua e lui ci ha aiutato a sistemare; dall’altra parte purtroppo loro non hanno avuto questa fortuna… Solo che qua fa molto freddo. Questi sono i bagni che non puliscono neanche, vedi? Oggi non puoi fare la doccia perché l’acqua è fredda. Qua siamo in mezzo alla campagna, fa troppo freddo.»

Il video si conclude con un’inquadratura su un uomo accasciato a terra attorniato da personale sanitario (?) e sulla richiesta di un poliziotto (?) di «portare via il telefono e andare di là». 

Gli ultimi minuti del video mostrano la retata con la quale vengono prelevati dal CPR coloro che sono destinati al rimpatrio forzato: «portano gli africani in Africa perché sono senza documenti».  

Una voce commenta:

«Cosa hanno passato questi ragazzi per arrivare fino a qua… e quanti soldi hanno speso… per un pezzo di documenti… spero che oggi dormirete bene.»

Un’altra morte di Stato nel CPR di Gradisca

Due settimane fa, Abdel Latif, ventiseienne tunisino, è stato trovato morto, legato al letto, all’Ospedale san Camillo di Roma, dopo essere stato relegato su una nave quarantena e rinchiuso nel CPR di Ponte Galeria, a Roma. Ieri, il sistema delle prigioni su base etnica ha fatto un altro morto: non sappiamo come si chiami, sappiamo solo che era rinchiuso nel CPR di Gradisca d’Isonzo e che ieri mattina era già morto.

Dopo Majid el Khodra, Vakhtang Enukidze e Orgest Turia, aggiungiamo un ennesimo nome ai morti di Stato del lager della nostra regione. Non dobbiamo smettere di far arrivare la nostra solidarietà a chi è rinchiuso e non dobbiamo smettere di dire che i CPR vanno distrutti.

Per la LIBERTA’ e la DIGNITA’ di TUTTE/I LOTTIAMO CONTRO I CPR, LAGER per MIGRANTI

Riceviamo notizia di questa iniziativa dell’ Assemblea permanente contro il carcere e la repressione, avvenuta a Udine il 13/07 e inoltriamo:

Come assemblea permanente contro il carcere e la repressione, martedì 13 luglio, abbiamo volantinato un testo contro i CPR all’ingresso di uno spettacolo teatrale al quale partecipava il musicista Liubomyr Bogoslavets, che ha subito qualche settimana fa la cattura da parte della polizia e la deportazione nel CPR di Gradisca d’Isonzo con la minaccia di un rimpatrio in Ucraina e che poi è stato liberato.

Di fronte all’interessamento ipocrita alla vicenda di politicanti locali del PD ma anche ad un’opinione pubblica che va avanti a colpi di flash mob e petizioni on line, con questo volantinaggio, abbiamo voluto rimarcare la prospettiva della lotta contro i CPR, una lotta che implica quella contro lo Stato, i suoi confini e le sue leggi, il potere della polizia, lo sfruttamento e la schiavitù che derivano dalla criminalizzazione delle persone migranti.

Tutta la nostra solidarietà va a Liubomyr Bogoslavets che è stato privato della sua libertà e rinchiuso nel CPR di Gradisca d’Isonzo con la minaccia di un rimpatrio forzato nella sua terra di provenienza, l’Ucraina ed a tutti i/le prigionieri/e rinchiusi nei lager di Stato italiani.

I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) sono l’ultimo nome dato alle strutture detentive per migranti irregolari istituite nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano e nate come Centri di Permanenza Temporanea (CPT), poi Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), infine nel 2017 con la legge Minniti-Orlando, CPR.
I CPR sono delle prigioni amministrative senza regolamento penitenziario, impermeabili alla società civile che non può avervi accesso, affidate alla gestione di cooperative ed aziende, il famigerato privato-sociale. Ad esempio a Gradisca la gestione del lager è passata dal consorzio Connecting People alle cooperative Minerva, Edeco, infine Tucso.
A Gradisca, come in tutti i CPR, le condizioni sono degradanti e disumanizzanti: gabbie in acciaio, coperture di plexiglass, lucchetti, filo spinato e offendicula direttamente importati dallo stato genocida israeliano, letti imbullonati al pavimento senza materassi e lenzuola, bagni putridi e senza porte divisorie, sporcizia ovunque, cibo insufficiente, scadente e drogato da psicofarmaci.
Dalla loro creazione ad oggi vengono rinchiuse nei CPR migliaia di persone come Liubomyr, persone non comunitarie trovate senza permesso di soggiorno “regolare”, perché perso, non rinnovato oppure mai avuto, o alle quali è stata rifiutata la richiesta di asilo politico, o che avevano in sospeso decreti di espulsione dall’Italia, senza comunque essere state condannate per alcun reato (per quel che vale).
Il CPR di Gradisca d’Isonzo riapre nel dicembre 2019, dopo essere stato chiuso nel 2013 grazie ad una importante rivolta dei prigionieri in seguito alla quale morì Majid El Kodra che, assediato dalle forze dell’ordine, cadde dal tetto della struttura.
A fine maggio 2021, pochi giorni prima di Liubomyr, la polizia ha provato a deportare un altro uomo ucraino che aveva già vinto un ricorso contro l’espulsione, il quale è stato deportato a Gradisca da Milano, anche lui in seguito liberato.
Queste persone vengono imprigionate tutti i giorni sulla base di un dispositivo che lo Stato italiano ha introdotto come strumento di controllo sui propri confini e di repressione su chi li oltrepassa senza “carte in regola” oppure non è più ritenuto utilizzabile a fini produttivi, quindi “eliminabile”. La privazione della libertà viene disposta di regola dalle forze di polizia che effettuano i controlli sui documenti, mentre il giudice di pace interviene solo in seguito in sede di controllo sulla legittimità della detenzione.
Quante volte vediamo per le strade della città volanti della polizia “a caccia” di migranti: fermano senza alcuna ragione persone che stanno semplicemente camminando per i fatti loro, solo perché non bianche o identificate come non italiane.
Dal dicembre 2019 sono morti nel CPR di Gradisca d’Isonzo due prigionieri, nel gennaio 2020 Vakhtang Enukidze, ammazzato di botte dalle guardie perché per cercare il suo telefono rifiutava di entrare nella cella e Orgest Turia, morto di overdose a causa di psicofarmaci che gli sono stati somministrati in modo coatto. Queste, come quella di Majid sono morti di Stato! Non dimentichiamocelo.
Le forze politiche, PD in testa, che si sono esibite in dimostrazioni di solidarietà con Liubomyr sono le dirette eredi di quelle che crearono i CPT e la detenzione amministrativa e quelle che hanno riaperto nuovi e vecchi centri col nome di CPR mentre facevano accordi (Memorandum Gentiloni del 2017) coi miliziani libici per il controllo delle loro frontiere a sud, per tenere internati circa 1 milione di uomini e donne in campi concentramento dove vengono torturati, stuprate e uccisi e fare buona guardia ai pozzi petroliferi dell’ENI.

La lotta contro i CPR non è un’azione di carità e non può esaurirsi nell’azione legale che riesce a evitare detenzione ed espulsione per qualcuno/a.

La lotta contro i CPR è una lotta politica contro gli Stati e i loro confini, contro il potere della polizia e delle altre forze dell’ordine, per l’autodeterminazione degli individui e dei popoli, contro lo sfruttamento e la schiavitù alla quale sono sottoposte le persone cosiddette “irregolari”.

Assemblea permanente contro carcere e repressione fvg