dalla parte di chi sfida la violenza dei confini europei e la brutalità della polizia!

Condividiamo il comunicato di Linea d’Ombra ed esprimiamo la nostra totale solidarietà alle due persone, attiviste dell’associazione, per il pesantissimo e gravissimo atto repressivo subito questa mattina, 23 febbraio.

Contro la criminalizzazione e la repressione della resistenza e della solidarietà, saremo sempre dalla parte di chi sfida la violenza dei confini europei e la brutalità della polizia!

https://www.lineadombra.org/2021/02/23/lorena-e-gian-andrea-sotto-accusa-per-reato-di-solidarieta/

Respingiamo la violenza dei confini!

Respingiamo la violenza dei confini!
Contro pushback e violenza dell’UE e della polizia

Trieste è una città di confine, alcuni la chiamano “Lampedusa del nord”. Trieste è infatti la porta d’entrata della rotta dei Balcani, come Lampedusa è la porta d’entrata della Rotta del Mediterraneo centrale. A Trieste si arriva a piedi, a Lampedusa in nave o in gommone.

Lungo la rotta balcanica chi migra si trova a superare vari confini, prima di poter entrare nell’Area Schengen dove, almeno formalmente, vige la “libera circolazione”. Teoricamente tale area è delimitata dal confine che separa la Slovenia dalla Croazia, ma ormai da anni l’Unione Europea ha delegato alla Croazia il “lavoro sporco” di fermare le persone che tentano di entrare nella UE, respingendole nei paesi che si trovano ancora più a sud, Bosnia e Serbia.

Come documentato nelle 1500 testimonianze raccolte fin dal 2018 dalla rete borderviolence.eu e pubblicate in “black book of push backs I e II”, le persone vengono fermate, maltrattate violentemente dalla Polizia croata e da Frontex e ricacciate oltre confine.

Però, per chi migra, anche superare il confine sud della Croazia non significa essere finalmente al sicuro: da due anni la Slovenia, quando rintraccia queste persone, le consegna in poco tempo alla polizia croata che a sua volta le deporta al confine.
Da maggio di quest’anno si è inserita in questo meccanismo anche l’Italia: ciò che qui chiamano “riammissioni informali in Slovenia” non sono altro che il primo anello di questa catena. Tra gennaio e metà novembre 2020, la polizia di frontiera di Trieste e Gorizia ha “riammesso” 1240 persone (+420% rispetto al 2019).
In Bosnia, destinazione ultima di queste “riammissioni”, da alcuni anni si è creato un collo di bottiglia. Vi si trovano persone soprattutto giovanissime, che solitamente sono in viaggio da anni e non hanno alcun interesse a fermarsi in Italia ma vogliono arrivare ai Paesi del nord. Quando arrivano a Trieste, stremati dai 15-20 giorni di fughe, cammino e stenti, ricevono una cura informale in piazza Libertà (di fronte alla stazione) dalle attiviste dei gruppi Linea d’Ombra e Strada si.Cura.

I respingimenti sono contrari alle leggi sull’immigrazione dell’UE e nonostante questa ne neghi pubblicamente l’esistenza li finanzia in vario modo.

Il 23 dicembre il campo di Lipa, vicino a Bihać, al confine nordoccidentale della Bosnia Erzegovina, è andato a fuoco. Da allora, i giornali italiani hanno cominciato a raccontare che in Bosnia è in atto una crisi umanitaria, come le attiviste e gli attivisti sul posto e al di qua del confine dicevano da anni.

Quella che viene chiamata in questi giorni “crisi umanitaria” sulla stampa italiana è una situazione di violenza sistemica che non si limita al freddo intollerabile di questi giorni al confine bosniaco ma si estende alla gestione da parte dell’Oim (l’ente Europeo gestore dei campi) dei grandi campi bosniaci, alle violenze sistematiche della polizia croata, alla catena dei respingimenti che arriva fino a Trieste, al razzismo fuori e dentro i confini dell’Unione Europea.

La dirigenza della questura di Trieste dal 30 dicembre è passata nelle mani di Irene Tittioni, esperta di pattugliamenti congiunti dei confini interessati da migrazioni.
Questa notizia ci mette in allerta, ci chiediamo cosa significhi essere esperti nel gestire in nome dello Stato fenomeni migratori clandestini creati da quelle stesse leggi che non forniscono visti, che permettono di entrare in Italia solo attraverso una migrazione pericolosa e chiedendo l’asilo politico, che rinnegano la maggior parte delle richieste d’asilo, che collaborano con e nascondono i respingimenti violenti e illegali.

Di fronte a tutto questo l’8 gennaio 2021 alle 17:30 saremo in piazza Goldoni a Trieste davanti al Consolato croato per denunciare pubblicamente le sanguinarie politiche europee in merito alla protezione dei confini. Ci saranno materiali informativi sui respingimenti, riflessioni e interventi con testimonianze delle attivist* che operano in Piazza della Libertà in Bosnia e Croazia.

Invitiamo chiunque non voglia accettare la normalità di tale orrore ad essere presente.

Assemblea no-cpr-no-frontiere, Strada si.Cura, Linea d’Ombra

Tra le fiamme e il ghiaccio: la catastrofe premeditata del campo di Lipa in Bosnia

Il 23 dicembre il campo di Lipa, vicino a Bihać, al confine nordoccidentale della Bosnia Erzegovina, è andato a fuoco. Da allora, i giornali italiani hanno cominciato a raccontare che in Bosnia è in atto una crisi umanitaria, come le attiviste e gli attivisti sul posto e al di qua del confine dicevano da anni.

Il 25 dicembre i gruppi No Name Kitchen, SOS Balkanroute, Medical Volunteers International, Blindspots e One Bridge To Idomeni pubblicavano questo comunicato:

“Oggi, a #Natale, migliaia di persone sono senza casa. Necessità di base, sicurezza e accoglienza, igiene, cibo e assistenza medica non sono garantite per le persone in movimento qui e nella regione.
Lipa era un campo non pronto ad accogliere dignitosamente le persone. L’unica alternativa proposta a questa crisi umanitaria, prima dell’incendio e dopo mesi di trattativa su come gestire le persone migranti che vivevano all’interno del campo di Lipa, è stata quella di utilizzare la struttura dell’ex campo di Bira, nella città di Bihać. Quindi l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), che gestiva il campo di Lipa, voleva trasferire le persone in questo campo. Tuttavia, secondo gli osservatori, cittadini preoccupati e gruppi fascisti hanno bloccato le strade di accesso e hanno impedito l’ingresso agli autobus di IOM sostenendo di non volere un altro campo in città.

Dopo l’incendio di Lipa, la maggior parte delle persone migranti ieri ha cercato di raggiungere Bihac a piedi, ma è stata nuovamente bloccata dalle autorità locali. Qualche mese fa sono stati inasprite le repressioni contro le persone migranti, così come contro persone e strutture che li sostengono con cibo e vestiti.

Al momento, non c’è via d’uscita: è un blocco pericoloso che mette a rischio la salute delle persone. Così oggi, a Natale, queste persone non hanno accesso ai campi o ad alcun alloggio a Bihac, né a strutture di solidarietà a loro disposizione o non hanno il diritto di andare nei negozi della città e comprare cibo o vestiti.

L’Unione Europea e i suoi Stati membri condividono la responsabilità di questa catastrofe. Non agendo, accettano la sofferenza fisica e psicologica di queste persone. Le persone in movimento vengono bloccate con la forza e impedendo loro di accedere ai bisogni di base. Hanno bisogno di un sostegno solidale in loco e di prospettive a lungo termine.
L’Unione Europea, con i suoi cosiddetti “valori di solidarietà”, fallisce da anni quando si tratta di affrontare la tematica della migrazione. In una festività europea come quella odierna, il contrasto tra il nostro modo di vivere privilegiato e l’amara realtà alle nostre frontiere esterne diventa particolarmente drastico. Non c’è solidarietà. Non c’è umanità. Non ci sono diritti umani.”

Le richieste delle attiviste e degli attivisti sono queste:

• Fate evacuare le persone adesso!
• Fornite misure di soccorso di emergenza!
• Consentite le reti di supporto!
• L’Unione Europea dovrebbe prendere una decisione umana riguardo ai confini. I campi servono ad arginare il problema, non a risolverlo

Il 29 dicembre le circa 800 persone costrette nei boschi attorno alle ceneri di Lipa sono state caricate a forza e chiuse su una lunga fila di autobus. In serata si è scoperto che la destinazione sarebbe stata Bradina, un villaggio isolato, situato tra Mostar e Sarajevo. Ad oggi, 30 dicembre, ore 11, a quasi 24 ore dall’inizio dell’operazione, i 40 autobus con le persone a bordo sono ancora bloccati a Lipa.

Da quando esiste la nostra assemblea, abbiamo ripetuto che l’Unione europea ha responsabilità dirette nella gestione dei suoi confini: non tanto perché “sta a guardare” una catastrofe umanitaria, ma perché finanzia direttamente gli Stati membri (come la Croazia) e gli Stati confinanti (come la Bosnia Erzegovina) perché gestiscano in modo securitario e violento le vite delle persone che si trovano ora nei Balcani, con il passaporto sbagliato o senza passaporto. Come abbiamo già scritto, tutto il territorio che si estende dalla Bosnia all’Italia (la Croazia, la Slovenia, la provincia di Trieste) è un estesissimo dispositivo confinario, che le persone sono costrette ad attraversare, sotto i colpi delle polizie e degli eserciti, della delazione e delle leggi razziste degli Stati.

Chi viene scoperta/o a migrare in questa fascia di terra, viene violentemente respinta/o fino in Bosnia, con passaggi di camionetta in camionetta tra le varie Polizie di Stato coinvolte. A Trieste, ciò che chiamano “riammissioni informali in Slovenia”, iniziate negli ultimi sei mesi, non sono altro che il primo anello di questa catena. Tra gennaio e metà novembre 2020, la polizia di frontiera di Trieste e Gorizia ha “riammesso” 1240 persone (+420% rispetto al 2019).

Quella che viene chiamata in questi giorni “crisi umanitaria” sulla stampa italiana è una situazione di violenza sistemica della quale parliamo da più di due anni, che non si limita al freddo intollerabile di questi giorni al confine bosniaco ma si estende alla gestione da parte dell’Oim dei grandi campi bosniaci, alle violenze sistemiche della polizia croata, alla catena dei respingimenti che arriva fino a Trieste, al razzismo sistemico fuori e dentro i confini dell’Unione europea.

Finché ci saranno i confini, non ci sarà mai pace.

[fotografia: No name kitchen/Alba Duez]

La sicurezza è la solidarietà!

Da più di due anni, l’assemblea No Cpr-no frontiere si muove sul territorio per combattere concretamente il razzismo e solidarizzare attivamente con chi ne è colpito, nella tensione verso un mondo senza discriminazioni in cui tutte e tutti siano libere di muoversi. La nostra relazione con Linea d’Ombra e l’attività di aiuto in stazione, ancor prima che si creasse formalmente l’associazione di volontariato, è sempre stata stretta, di sinergico supporto e scambio. Dare una mano fraternamente attraverso la cura e l’ascolto a chi arriva stremato da settimane di fughe, molto spesso per ripartire verso altri Paesi, solidarizzare con le persone assicurandosi che le città ed i sentieri che attraversiamo non siano ostili a chi si trova in uno stato di vulnerabilità, lottare concretamente contro i campi di internamento per persone senza documenti (CPR) e diffondere le voci invisibili dei reclusi e dei sopravvissuti alle violenze delle polizie d’Europa sono tutte pratiche di sorellanza strettamente legate tra loro.

Sabato 24 ottobre, Linea d’Ombra e il gruppo di mediche/infermiere/attiviste La strada Si.Cura, che da mesi scendono regolarmente in piazza, saranno sotto attacco. La pagina facebook fascista Son Giusto ha chiamato una manifestazione alla stessa ora e nello stesso luogo dove ogni sera scendiamo in piazza, in solidarietà con chi è appena arrivato dalla Rotta balcanica, cioè persone debilitate e spesso giovanissime. Alla manifestazione hanno garantito la loro presenza i militanti di Veneto Fronte Skinhead, Avanguardia Nazionale e il gruppo Unione e Difesa. Come scrivono Linea d’Ombra e La strada si.cura, “La volontà di “Son Giusto Trieste” di appropriarsi della Piazza apre a possibili scenari violenti dei quali saranno ritenuti responsabili coloro che dovessero permettere che tale palese provocazione si realizzi.

Di fronte a questa minaccia fascista concreta, che si somma al controllo poliziesco costante, ci dichiariamo solidali con le persone che attraversano le frontiere balcaniche, fino a Trieste e oltre, e con chiunque combatta la violenza delle frontiere, delle polizie e degli Stati, attraverso la cura, come fanno le attiviste e gli attivisti di piazza Libertà, e con ogni altro mezzo.

Qui il comunicato di LDO e LaStradaSi.Cura https://www.lineadombra.org/2020/10/22/comunicato-inaccettabile-son-giusto/

Via i militari dal Carso!

Dalla rotta Balcanica arrivano a Trieste ogni giorno molte persone. Di queste, poche hanno interesse a fermarsi in Italia, la maggior parte invece prosegue per altri Paesi europei. Per arrivare, queste persone fanno un viaggio terribile, di durata variabile tra uno e i dieci anni, molti sono giovanissimi e giovanissime. Il viaggio ha il suo collo di bottiglia ai confini in Croazia, ai confini  con Bosnia e Serbia. Ormai da anni, infatti, sia la Croazia sia la Slovenia, con il supporto di tutti gli altri Paesi europei, hanno iniziato a violare gli stessi accordi europei, deportando chiunque riescano a scovare sul proprio territorio e negandogli il diritto d’asilo. Questi respingimenti sono brutali, le persone vengono picchiate, derubate, terrorizzate a scopo deterrente (molti racconti diretti di queste violenze si possono trovare qui). Quindi, ognuna di queste persone è costretta a provare più e più volte prima di riuscire finalmente ad arrivare a Trieste, dove purtroppo da quando sono iniziate le “riamissioni informali” in Slovenia non possono nemmeno più sentirsi al salvo. “Le riammissioni” da Trieste infatti, a differenza di quanto riportano i vari politici e prefetti, sono delle pratiche orride, le persone vengono sì “riammesse” in Slovenia, ma in una caserma, da dove poi vengono inserite in una catena di respingimenti, accordati tra gli Stati in modo informale, che in poche ore li riporta al collo di bottiglia da cui sono partiti. Non è ancora chiaro su che base a Trieste vengano eletti gli sfortunati richiedenti asilo da “riammettere” e quelli da tenere, sono stati infatti già “riammessi” sia ragazzini minorenni sia persone provenienti da qualsiasi nazione. Le persone che arrivano qui provengono infatti da Paesi da dove è molto difficile emigrare legalmente: l’Italia fornisce visti di ingresso solo per una minoranza della popolazione, spesso corrispondente alla parte ricca, privilegiata e con potere di quelle società.

Chi arriva a Trieste e non viene fermato prima spesso giunge alla stazione dei treni dove ogni sera da mesi trova la solidarietà, la sorellanza, il supporto e la cura delle attiviste e degli attivisti di Linea d’Ombra e della Strada Si.Cura.

Da qualche giorno però arrivano poche persone alla piazza della stazione di Trieste e abbiamo scoperto che sul “Sentiero dell’amicizia” che da Bagnoli (Boljunec) porta al confine martedì correvano militari armati (nella foto sotto), che perlustravano sulle camionette la piazza e i dintorni dei paesi, ma raramente si erano spinti sui sentieri. Ci siamo chiesti se gli amministratori regionali e locali volessero le strade “pulite” per la Barcolana e avessero per questo intensificato la presenza di cacciatori di uomini e donne sul confine. Non è ancora chiaro, forse si trattava di un’esercitazione di orienteering degli alpini di Banne, racconta qualcuno in paese, forse invece è giusto il nostro sospetto, pensa qualcun’altro.

Oggi a Bagnoli è stato volantinato alla scuola e distribuito nelle cassette delle lettere di gran parte del paese un volantino (Slo Ita), prodotto quando Salvini voleva riempire di filo spinato il Carso, ma che purtroppo rimane più che mai attuale con il PD al governo.

Pericoloso per noi è incontrare pattuglie armate nei boschi. I territori sicuri li fanno le persone che ci abitano attraverso la solidarietà e le persone che ci camminano, per qualsiasi ragione.

 

CONTINUANO ANGHERIE E DEPORTAZIONI

Dal CPR di Gradisca si continua a deportare: sappiamo per esempio che è stata deportata una persona tunisina, arrivata dal Mediterraneo a inizio giugno e che da allora non ha fatto altro che richiedere asilo, non sappiamo se gli è mai stata data la possibilità di farlo anche in modo ufficiale. Qualche giorno fa abbiamo raccontato che lo Stato italiano sta rimpatriando persone arrivate da poco attraverso la Rotta del Mediterraneo centrale, facendole passare coattamente dal CPR di Gradisca.

Tra inizio agosto e metà settembre la ministra dell’Interno Lamorgese si è recata personalmente in Tunisia e Algeria per intensificare, tramite accordi, i rimpatri di coloro che quei posti decidono di lasciarli assumendosi il rischio di un viaggio spesso letale. Dal dieci agosto, sono stati riattivati i voli di rimpatrio verso la Tunisia: dall’Italia alla Tunisia partono due voli charter di rimpatrio a settimana.

I rimpatri verso la Tunisia e l’Algeria sono effettivamente intensi dal CPR di Gradisca. Nel 2018, l’ex governatrice del Friuli-Venezia Giulia Serracchiani (PD) chiedeva all’allora ministro dell’Interno Salvini dove fossero i rimpatri di massa. Secondo quella logica, il Partito Democratico di Marco Minniti aveva una maggiore capacità di gestire i flussi migratori: cioè di rinchiudere e respingere le persone senza documenti regolari. La politica estera di Lamorgese, allo stesso modo, vanta un certo successo nel sottoscrivere accordi per i rimpatri di massa, una delle azioni più razziste e disumane promosse dallo Stato Italiano.

Nel frattempo, la cooperativa EDECO, che gestisce il CPR, sembra abbia iniziato a fare nuove angherie. Ora, ci raccontano da dentro, le persone che entrano non possono più avere una sim card con la quale comunicare con l’esterno. La settimana scorsa, ci dicono, almeno un coordinatore degli operatori della cooperativa ha intralciato la consegna dei pacchi ai reclusi. In generale, pacchi che contengono cibo, vestiti o altro possono essere inviati ai reclusi da famiglie, persone amiche o solidali; tuttavia, a quanto pare, la cooperativa EDECO si è rifiutata di consegnare dei pacchi, adducendo come scusa la necessità di un controllo preventivo da parte della Prefettura di Gorizia. In realtà, pare che questa norma non esista: non è chiaro se la cooperativa abbia ostacolato deliberatamente una delle pochissime possibilità di contatto con l’esterno per i reclusi. A quanto ci raccontano, da quando ha iniziato a gestire il CPR, EDECO si è contraddistinta per le sue prassi degradanti e violente: per esempio, nel CPR di Gradisca non è mai stata aperta la mensa, privando le persone di uno spazio di comunità e costringendole chiuse in gabbia tutto il giorno.

Un dispositivo come il CPR e una macchina organizzativa come quella delle deportazioni possono essere gestiti bene o gestiti male, in termini di efficienza: spesso, chi sa gestirli “meglio” è chi causa il maggior numero di reclusioni e deportazioni. Contro la retorica della gestione efficiente dei flussi migratori e contro l’umanizzazione dei campi di internamento, continuiamo a volere la distruzione dei lager e dei confini.

POTREBBE COLPIRE CHIUNQUE: AGIRE DIVENTA AUTODIFESA

Solidarietà e cassa resistenza

Mercoledì 13 maggio l’operazione “Ritrovo”, coordinata dalla procura di Bologna, ha incriminato diverse persone tra Bologna, Firenze e Milano: 7 di loro sono state arrestate in custodia cautelare e senza processo, altre 4 hanno ricevuto misure cautelari alternative. Si tratta di compagne e compagni che, come noi, si oppongono a frontiere e CPR e credono che attraverso l’azione si possa creare un mondo solidale, senza più persone oppresse e sfruttate.

Al Tribolo, spazio bolognese preso di mira dall’operazione, ci siamo state anche noi e lì, come in tanti altri luoghi, abbiamo potuto conoscere compagne attive nella lotta ai CPR di altre città.

L’operazione repressiva che ha portato alle misure cautelari, condotta dal Ros (!) e dalla procura antiterrorismo di Bologna (!!) è atroce, di una franchezza inaudita e pericolosa per la libertà di tutte e tutti.

È atroce perché utilizza le leggi antiterrorismo per terrorizzare la società, criminalizzando chiunque tenti di reagire alle ingiustizie. Rappresenta il quinto tentativo in poco più di un anno di raggruppare sotto il pesantissimo 270bis CP (associazione con finalità di terrorismo o di eversione), ormai sventolato con una disinvoltura preoccupante, iniziative, manifestazioni, diffusioni di critiche e azioni. Portare solidarietà e supporto agli/le ultim* con costanza e determinazione è diventata ragione sufficiente per essere accusate di “terrorismo”: ormai viene accusat* chiunque porti avanti pratiche coerenti di pari passo con analisi di critica radicale dell’esistente.

Le compagne e i compagni, tra le altre cose, vengono accusat* “di contrastare anche mediante ricorso alla violenza le politiche in materia di immigrazione”, di mettere in atto azioni volte a “contrastare e impedire l’apertura dei Centri Permanenti [?] di Rimpatrio”: ma noi sappiamo bene che chi pratica davvero violenza e terrorismo è chi rinchiude le persone in strutture come i CPR, imprigionate per mesi in attesa della deportazione, ammassate in condizioni intollerabili, spesso picchiate, talvolta lasciate morire o ammazzate.

L’operazione è inoltre spudoratamente franca, tanto che nelle stesse carte compare la ragione dell’operazione: “l’intervento [..] assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturiti dalla particolare descritta situazione emergenziale possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato […]”. In breve, lo Stato rinchiude coloro che potrebbero partecipare attivamente ad atti di ribellione contro di esso.

E perciò diventa estremamente pericolosa per la libertà di tutte: se basta questo, ci chiediamo, chi saranno le prossime e i prossimi?

Approfittando del totalitarismo di fatto creato “per la nostra salute”, lo Stato di diritto si è tolto la mascherina democratica per attaccare apertamente i suoi oppositori politici; la famigerata libertà di espressione e di opposizione con la quale, fino a ieri, si è riempito la bocca, viene messa da parte senza fatica. Se non reagiamo, ciò che è successo ieri potrebbe rappresentare uno spaccato dei prossimi tempi; potrebbe risuccedere a chi deciderà di scendere in strada per opporsi alle ingiustizie, per non far pagare la crisi che verrà alle fasce più povere o per creare legami solidali.

Esprimiamo solidarietà e calore alle compagne e ai compagni, repress* per aver lottato senza delega e mediazioni contro le istituzioni e le strutture dello sfruttamento e dell’oppressione.

Elena, Leo, Zipeppe, Stefi, Nicole, Guido, Duccio, Martino, Otta, Angelo, Emma, Tommi liber* subito!!!

Stiamo raccogliendo in una cassa comune contributi da inviare per le spese legali cui dovranno far fronte le persone coinvolte in quest’ultima operazione: chiunque voglia e possa contribuire ci contatti sulla pagina facebook “no cpr e no frontiere – fvg”!

CONTRO LA GOGNA MEDIATICA – SOLIDARIETÀ CON CHI PARLAVA E CHI C’ERA-

Sabato 16 novembre si è svolto un presidio davanti al carcere di Trieste, per comunicare con le persone detenute e manifestare contrarietà alle strutture di detenzione totale. Tante e tanti di noi quel giorno erano presenti.

La società è spinta a non riflettere sulle cause che portano alle detenzioni e le carceri vengono generalmente percepite come contenitori di persone pericolose per la nostra incolumità. I dati ci dicono invece che questi luoghi sono affollati da persone che socialmente “valgono” poco, e che in molti casi sono giudicate colpevoli di reati minori. Le testimonianze ci raccontano che le carceri sono luoghi terrificanti, in cui si viene private di libertà, aria e amore e dove gli abusi da parte delle guardie delle strutture sono all’ordine del giorno. Luoghi così non hanno spazio nel mondo per cui lottiamo.

Il carcere del Coroneo è una struttura sovraffollata, dove solo nell’ultimo anno sono morte due persone in modo sospetto, tra cui un ragazzo di 21 anni. Queste morti sono state liquidate rapidamente dalle testate locali e nemmeno citate dalle testate nazionali. Il presidio di sabato scorso ha trovato invece ampio spazio sui giornali, dopo che l’assessore Roberti ha condiviso il video di un intervento, esponendo chi l’aveva letto al microfono a un linciaggio mediatico. Vi invitiamo ad ascoltare quelle parole.

Quell’intervento rimarca che la sparatoria che ha portato all’uccisione dei due poliziotti è un dramma sociale, non un dramma di Stato e ricorda che tutte le vite sono uguali. Ragiona su come le morti di Riccardo Rasman ucciso nel 2006, Alina Bonar Diaciuk nel 2012 o Pedro Greco nel 1985 non abbiano portato alle stesse commemorazioni, nonostante fosse coinvolta anche in quei casi la polizia di Trieste. Si domanda perché non è nato lo stesso sconforto sui giornali per la morte sul lavoro di Roberto Bassin in porto a settembre o per le morti che stanno avvenendo lungo i confini o in carcere. Si chiede se queste morti non meritino lo stesso dolore e la stessa rabbia.

Noi ci riconosciamo nei ragionamenti proposti in queste parole.

L’intervento dà poi un’opinione sulla funzione politica del lavoro della polizia e sulla decisione di svolgere quel lavoro.

Pensiamo non si debba aver paura di parlare di questi temi e che sia gravissimo che chi ha avuto il coraggio di parlarne alle persone detenute stia subendo una gogna mediatica. Purtroppo conosciamo bene la tecnica del linciaggio mediatico, utilizzata sempre più spesso dagli esponenti di alcuni partiti, in particolare contro le donne o contro certe aree politiche.

Noi crediamo che quel tentativo di linciaggio mediatico non avrebbe dovuto essere rilanciato dai giornali. Crediamo che questo tipo di giornalismo morboso abbia forti responsabilità nella catastrofe umana che ci circonda, lo vediamo qui, lo vediamo con la retorica del clandestino che ci invade o con gli stupri che valgono la pena di essere raccontati solo se commessi da persone non comunitarie. Crediamo sia ora di pensare a come porre fine a questo tipo di giornalismo.

Siamo solidali con chi era al presidio di sabato 16 e con chi ha parlato.

Se toccano una, toccano tutte!

Collettivo Tilt – Resistenze Autonome Precarie
Assemblea No Cpr e no frontiere
Trieste Antifascista – Antirazzista
minoranza di uno
Comitato- BDS (boycotta disinvesti sanziona) Israele Trieste
Sinistra Anticapitalista FVG
Assemblea Permanente contro il carcere e la repressione
Affinità Libertarie -affinitalibertarie.noblogs.org-
Coordinamento 25 aprile di Udine
Guerra ai palazzi DISTRO – Udine

Diffondi!

(Se qualche altro gruppo si riconosce in questo scritto, si aggiunga, lo pubblichi e ci scriva ad assembleanocpr@gmail.com )

IN MEMORIA DI FAISAL HOSSAI E CONTRO TUTTI I CPR.

Faisal Hossai è morto nella notte tra il 7 e l’8 luglio in una delle celle di isolamento del CPR di Torino, dove si trovava da 22 giorni. Secondo testimonianza di un recluso, riportata da fanpage.it, Faisal Hossai sarebbe stato stuprato da due altri prigionieri e avrebbe avuto bisogno di cure. Secondo fanpage.it, un suo compagno di prigionia aveva denunciato alla Questura la situazione con queste parole: “Ieri 24 06 2019 ci fu un episodio di stupro che si consumo all’interno dello stesso centro […]. Si tratta di un regazzo che le forze dell’ordine presenti hanno poi portato in isolamento dopo averlo portato nell’aria blu dove sono anch’io dall’aria gialla dove era prima. Questo perche quando il regazzo è entrato nell’aria ha comenciato a piangere e ci ha raccontato l’accaduto. […] La nostri paura è che provino a insabbiare l’episodio perche a loro no conviene sicuramente che si interessi la procura di quanto succede ogni giorno all’interno del centro”. La polizia ha negato di aver ricevuto qualsiasi informazione a riguardo.

Dopo la denuncia, Faisal Hossai era stato trasferito prima nella zona blu e poi in isolamento, dove è morto la notte tra il 7 e l’8 luglio. Alla notizia della sua morte, è cominciata una rivolta da parte dei suoi compagni di prigionia, stremati per le condizioni di detenzione e per le sistematiche violenze che sono costretti a subire da parte della polizia. Le proteste all’interno del centro si sono susseguite durante tutta la giornata. La sera, la polizia è intervenuta per sedare la rivolta, utilizzando lacrimogeni e idranti all’interno del CPR. Nello stesso tempo, un gruppo di solidali che si era trovato in presidio fuori dal centro ha subito – insieme ad un fotoreporter – diverse cariche della polizia in tenuta antisommossa.

La vera faccia dei CPR, la loro natura di lager, buca con la morte di Faisal Hossai il velo dell’attenzione mediatica: per un giorno un fatto di cronaca mostra la violenza quotidiana che mettono in atto questi centri di internamento. Come ci stanno gridando tutti coloro che in questi giorni si stanno ribellando e stanno fuggendo dai CPR di Caltanissetta, di Roma, di Torino e, come ci grida la morte di Faisal Hossai, i CPR sono luoghi di tortura e non devono esistere.

A meno di un mese dalla morte di Sajid Hussain, che si è suicidato mentre viveva nel CARA di Gradisca, la morte di Faisal Hossai ci mette di fronte, di nuovo, al fatto che il CPR che vogliono aprire a Gradisca – come tutti gli altri – sarà un luogo di morte, dove si sopravviverà senza tutele e sotto tortura. Solo qualche giorno fa, un altro uomo che viveva nel CARA di Gradisca ha tentato di uccidersi buttandosi nel vuoto ed è stato fermato da un un passante. Anche lui, come Sajid Hussain, aveva chiesto il rimpatrio volontario.

Come scrive il compagno di Faisal Hossai nella sua mail alla Questura e ai giornali, “Chediamo per cortesia che qualcuno ci dia voce siamo stremati della fame è degli abusi perpetrati dello stesso personale senza poter fare niente.”

Pensare di non poterci fare niente, stringere lo spettro del proprio paraocchi per evitare di fare i conti con la realtà, delegare alle istituzioni una “gestione” o un cambio, sono tutte forme di “complicità passiva” con quello che sta accadendo.

Di “complicità attiva” ce n’è già molta, a noi spetta svegliarci e prenderci la responsabilità di reagire, di fermare questa catastrofe orchestrata in nostro nome.

A Gradisca vogliono aprire un lager, a Gradisca e a Udine esistono già centri di accoglienza alienanti dove le persone si ammazzano, a Trieste vengono bloccate persone stremate, in cammino da settimane, e rispedite violentemente oltre i confini europei. Tutto ciò avviene in nome della nostra sicurezza, economica e sociale.

Quei confini e quei lager creano un mondo più violento, autoritario e insicuro per tutte e tutti, per chi è nativa/o e per chi è arrivata/o. Se chiunque lo sa facesse dei passi in più nell’azione quotidiana, il lager di Gradisca e i respingimenti al confine si potrebbero bloccare.

COMUNICATO PER LA MORTE DI SAJID HUSSAIN

Sajid Hussain aveva 30 anni ed era originario del Parachinar, in Pakistan. Era arrivato in Europa qualche anno fa. Dalla Germania, dove aveva chiesto l’asilo politico e aveva vissuto alcuni anni, si era poi spostato in Italia, come molti suoi connazionali: tuttavia la sua richiesta d’asilo in Italia si era arenata in quanto il Paese di competenza – secondo il regolamento di Dublino II (2003/343/CE) – era la Germania, dove però le persone originarie del Parachinar difficilmente ricevono la protezione, al contrario di quanto avviene nel resto dell’Unione europea. In Italia, era entrato nel sistema di accoglienza a Staranzano (GO): era stato seguito dal Centro di Salute Mentale di Monfalcone. A seguito del cosiddetto Decreto Sicurezza e del conseguente smantellamento del sistema SPRAR di accoglienza diffusa, era stato trasferito, insieme ai suoi compagni, nel CARA di Gradisca d’Isonzo, gestito dalla cooperativa Minerva.

Otto mesi fa, aveva chiesto di avviare la procedura per il cosiddetto rimpatrio volontario assistito, gestito dall’agenzia dell’ONU per le migrazioni (IOM/OIM): il rimpatrio volontario è una misura di controllo e contrasto all’immigrazione, attraverso la quale uno Stato (o un’organizzazione internazionale) danno un sostegno economico alle persone che decidono di rientrare nel loro Paese di provenienza. Il processo di rimpatrio assistito di Sajid Hussain era bloccato per mancanza di fondi, come è stato per mesi per tutti quelli gestiti da IOM/OIM. Sajid chiedeva insistentemente di essere rimpatriato o rimandato in Germania: per dimostrare questo suo desiderio, circa quattro mesi fa aveva stracciato i suoi documenti.

Sajid si è annegato nell’Isonzo a Gorizia il 14 giugno, dopo essere stato in Questura a chiedere se si fosse sbloccata la sua procedura di rimpatrio.

La vita di Sajid Hussain interseca in più punti l’insostenibilità del governo europeo delle migrazioni: un sistema che l’ha costretto a un ingresso pericoloso e illegale; che l’ha inserito in un database di sorveglianza (Eurodac); che gli ha vietato di scegliere il Paese dove vivere e l’ha costretto a tentare la procedura di asilo in Italia; che l’ha sottoposto a un processo per la richiesta d’asilo lungo e precarizzante; che lo ha costretto a vivere in una struttura affollata e non adatta alla vita delle persone; che non l’ha tutelato per i suoi problemi psichici; che non gli ha permesso di scegliere di tornare indietro, ingabbiandolo in una strada senza uscita. Il suicidio di Sajid è anche una conseguenza diretta di questo sistema: è la scelta di una persona senza possibilità di scelta; è la scelta di una persona che, come tante altre, viveva le condizioni materiali di invisibilità e disumanizzazione alle quali è sottoposta/o chi entra in Europa illegalmente. Il suicidio di Sajid è una morte di Stato.

Se il Decreto sicurezza, con lo smantellamento del sistema SPRAR e l’eliminazione della protezione umanitaria, ha reso la vita in Italia dei/lle richiedenti asilo ancora più dura, è anche vero che in Italia l’immigrazione è sempre stata gestita come un fenomeno da controllare, incanalare e reprimere, secondo le necessità del mercato del lavoro. In questo razzismo istituzionale, che fonda lo Stato italiano come è oggi, sta l’origine dello sfruttamento delle migrazioni e dell’accettabilità dell’idea stessa che le persone richiedenti asilo possano essere ammassate in una struttura come il CARA di Gradisca, isolate, infantilizzate e costrette a un’attesa lunga mesi. A fianco a quel luogo, il CARA, dovrebbe essere presto aperta una prigione per persone irregolari: il Centro Permanente per il Rimpatrio (CPR), voluto dal Decreto Minniti-Orlando. L’apertura del CPR – di fatto un lager per le persone rinchiuse – porterebbe anche a un aumento del controllo poliziesco sulle vite delle persone che vivono nel CARA, oltre a essere per loro una minaccia visibile di espulsione e rimpatrio.

Il suicidio di Sajid, morto di Stato, segue (almeno) altri quattro suicidi che sono avvenuti negli ultimi due anni tra i richiedenti asilo in Friuli-Venezia Giulia. Questa invisibilità che si fa visibile per un giorno come notizia di cronaca nera è un richiamo potente all’evidenza della brutalità del sistema delle frontiere, che crea una gerarchia mortale tra gli abitanti del mondo. La lotta per la distruzione di tutti i confini è una lotta per la libertà di tutt*.