Tra le fiamme e il ghiaccio: la catastrofe premeditata del campo di Lipa in Bosnia

Il 23 dicembre il campo di Lipa, vicino a Bihać, al confine nordoccidentale della Bosnia Erzegovina, è andato a fuoco. Da allora, i giornali italiani hanno cominciato a raccontare che in Bosnia è in atto una crisi umanitaria, come le attiviste e gli attivisti sul posto e al di qua del confine dicevano da anni.

Il 25 dicembre i gruppi No Name Kitchen, SOS Balkanroute, Medical Volunteers International, Blindspots e One Bridge To Idomeni pubblicavano questo comunicato:

“Oggi, a #Natale, migliaia di persone sono senza casa. Necessità di base, sicurezza e accoglienza, igiene, cibo e assistenza medica non sono garantite per le persone in movimento qui e nella regione.
Lipa era un campo non pronto ad accogliere dignitosamente le persone. L’unica alternativa proposta a questa crisi umanitaria, prima dell’incendio e dopo mesi di trattativa su come gestire le persone migranti che vivevano all’interno del campo di Lipa, è stata quella di utilizzare la struttura dell’ex campo di Bira, nella città di Bihać. Quindi l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), che gestiva il campo di Lipa, voleva trasferire le persone in questo campo. Tuttavia, secondo gli osservatori, cittadini preoccupati e gruppi fascisti hanno bloccato le strade di accesso e hanno impedito l’ingresso agli autobus di IOM sostenendo di non volere un altro campo in città.

Dopo l’incendio di Lipa, la maggior parte delle persone migranti ieri ha cercato di raggiungere Bihac a piedi, ma è stata nuovamente bloccata dalle autorità locali. Qualche mese fa sono stati inasprite le repressioni contro le persone migranti, così come contro persone e strutture che li sostengono con cibo e vestiti.

Al momento, non c’è via d’uscita: è un blocco pericoloso che mette a rischio la salute delle persone. Così oggi, a Natale, queste persone non hanno accesso ai campi o ad alcun alloggio a Bihac, né a strutture di solidarietà a loro disposizione o non hanno il diritto di andare nei negozi della città e comprare cibo o vestiti.

L’Unione Europea e i suoi Stati membri condividono la responsabilità di questa catastrofe. Non agendo, accettano la sofferenza fisica e psicologica di queste persone. Le persone in movimento vengono bloccate con la forza e impedendo loro di accedere ai bisogni di base. Hanno bisogno di un sostegno solidale in loco e di prospettive a lungo termine.
L’Unione Europea, con i suoi cosiddetti “valori di solidarietà”, fallisce da anni quando si tratta di affrontare la tematica della migrazione. In una festività europea come quella odierna, il contrasto tra il nostro modo di vivere privilegiato e l’amara realtà alle nostre frontiere esterne diventa particolarmente drastico. Non c’è solidarietà. Non c’è umanità. Non ci sono diritti umani.”

Le richieste delle attiviste e degli attivisti sono queste:

• Fate evacuare le persone adesso!
• Fornite misure di soccorso di emergenza!
• Consentite le reti di supporto!
• L’Unione Europea dovrebbe prendere una decisione umana riguardo ai confini. I campi servono ad arginare il problema, non a risolverlo

Il 29 dicembre le circa 800 persone costrette nei boschi attorno alle ceneri di Lipa sono state caricate a forza e chiuse su una lunga fila di autobus. In serata si è scoperto che la destinazione sarebbe stata Bradina, un villaggio isolato, situato tra Mostar e Sarajevo. Ad oggi, 30 dicembre, ore 11, a quasi 24 ore dall’inizio dell’operazione, i 40 autobus con le persone a bordo sono ancora bloccati a Lipa.

Da quando esiste la nostra assemblea, abbiamo ripetuto che l’Unione europea ha responsabilità dirette nella gestione dei suoi confini: non tanto perché “sta a guardare” una catastrofe umanitaria, ma perché finanzia direttamente gli Stati membri (come la Croazia) e gli Stati confinanti (come la Bosnia Erzegovina) perché gestiscano in modo securitario e violento le vite delle persone che si trovano ora nei Balcani, con il passaporto sbagliato o senza passaporto. Come abbiamo già scritto, tutto il territorio che si estende dalla Bosnia all’Italia (la Croazia, la Slovenia, la provincia di Trieste) è un estesissimo dispositivo confinario, che le persone sono costrette ad attraversare, sotto i colpi delle polizie e degli eserciti, della delazione e delle leggi razziste degli Stati.

Chi viene scoperta/o a migrare in questa fascia di terra, viene violentemente respinta/o fino in Bosnia, con passaggi di camionetta in camionetta tra le varie Polizie di Stato coinvolte. A Trieste, ciò che chiamano “riammissioni informali in Slovenia”, iniziate negli ultimi sei mesi, non sono altro che il primo anello di questa catena. Tra gennaio e metà novembre 2020, la polizia di frontiera di Trieste e Gorizia ha “riammesso” 1240 persone (+420% rispetto al 2019).

Quella che viene chiamata in questi giorni “crisi umanitaria” sulla stampa italiana è una situazione di violenza sistemica della quale parliamo da più di due anni, che non si limita al freddo intollerabile di questi giorni al confine bosniaco ma si estende alla gestione da parte dell’Oim dei grandi campi bosniaci, alle violenze sistemiche della polizia croata, alla catena dei respingimenti che arriva fino a Trieste, al razzismo sistemico fuori e dentro i confini dell’Unione europea.

Finché ci saranno i confini, non ci sarà mai pace.

[fotografia: No name kitchen/Alba Duez]