Coronavirus nel CPR di Gradisca: aggiornamenti

Dopo aver ripetuto per giorni che nel CPR di Gradisca d’Isonzo c’erano solo 4 (poi 5) persone positive al Covid-19 e che erano in isolamento, mentre noi riportavamo le voci dei reclusi che parlavano di almeno dieci positivi, ieri autorità e giornali locali hanno parlato di 13 casi di isolamento preventivo nel CPR. “Si tratterebbe – stando ai giornali – per buona parte dei compagni di stanza dei 4 migranti risultati positivi nei giorni scorsi al test del tampone, e in parte di nuovi arrivi da fuori regione.” Non è chiaro come sia possibile che le 4 persone positive – che la Prefettura dichiarava fossero in isolamento – avessero dei compagni di stanza. La verità è che fino a pochi giorni fa, positivi al test (di cui abbiamo ricevuto le fotografie) erano in stanza insieme a negativi o a persone che non avevano ancora ricevuto il risultato. Da qualche giorno, questa prassi deliberatamente criminale è stata interrotta: le persone sono in cella a due a due, positivi con positivi e negativi con negativi. A quanto sappiamo, le persone positive stanno bene: non sappiamo però se ci sono persone che non riusciamo a raggiungere. Nell’area blu invece le persone sono in isolamento individuale.

Ieri alcuni reclusi e sono stati sottoposti al tampone. Alcuni hanno ricevuto i risultati e sono negativi. Altri non hanno ancora ricevuto il risultato. I reclusi applicano autonomamente il distanziamento fisico per autotutela, quando non sanno se il loro compagno di cella è positivo o negativo. I reclusi sanno che per loro il rischio di contagio deriva da chi entra ed esce dal CPR: i lavoratori della cooperativa Edeco e le guardie.

I reclusi cominciarono a protestare chiedendo la loro liberazione non appena il Coronavirus cominciava a diffondersi in Italia. La loro paura – quella che il virus entrasse nel CPR e il CPR si trasformasse in una trappola – si sta avverando. Per questo, negli ultimi giorni si sono moltiplicate le proteste.

Vogliamo la chiusura e la distruzione di tutti i lager etnici, subito.

 

Nel Cpr c’è il Coronavirus: i positivi sono in cella coi negativi

Oggi, 24 aprile, da dentro il CPR di Gradisca ci fanno sapere che ci sono almeno cinque persone positive al Coronavirus. Queste persone sono rinchiuse nelle celle comuni, con altri detenuti. Alcune di queste persone sono state deportate dalla Lombardia, in piena emergenza Coronavirus. La Regione Friuli-Venezia Giulia dichiara che ci sono tre persone positive in isolamento: questo è falso. Abbiamo ricevuto fotografie che testimoniano chiaramente che le persone infette sono a contatto con gli altri reclusi: la fotografia allegata è l’esito del tampone di un ragazzo che vive in una cella con un compagno negativo. Le persone positive hanno portato i materassi fuori dalle celle, per dormire nelle gabbie all’aperto e non infettare i propri compagni.

Chiediamo che tutte le persone vengano liberate dal CPR, che rischia di diventare una trappola per esseri umani.

Seguiranno aggiornamenti.

h. 22.20: stasera c’è stata una protesta: i reclusi hanno bruciato alcuni materassi per mostrare la loro rabbia e la loro paura. Stare chiusi in un CPR – positivi e negativi al virus – è un pericolo mortale. Chiedono di essere liberati, o quantomeno di non essere costretti a stare nelle stanze a rischio contagio. Ma, ci dicono da dentro, non ci sono abbastanza celle perché ognuno possa stare isolato. Del resto, ci dice chi è rinchiuso da prima dell’emergenza, non siamo noi a esserci contagiati a vicenda ma ci hanno contagiato quelli che entrano ed escono, cioè le guardie e gli operatori della cooperativa Edeco.

h. 23.00: secondo i reclusi, ci sono 8 casi di positivi nella zona rossa e almeno 4 casi nella zona blu, che – stando alle fonti ufficiali – sarebbe quella adibita all’isolamento delle persone affette da Covid-19. Come sappiamo, però, persone positive al virus si trovano anche nelle celle con persone negative.

18 APRILE, TRE MESI DALLA MORTE DI VAKHTANG NEL CPR DI GRADISCA

Sono passati tre mesi dall’omicidio di Vakhtang all’interno del CPR, e sulla sua fine è calato il silenzio.
La procura di Gorizia ha aperto un’indagine per omicidio, i termini per il deposito dell’esito dell’autopsia sono scaduti da settimane. Eppure, nulla si sa sul risultato degli accertamenti nel frattempo il corpo è stato rimpatriato.
Come abbiamo già detto, a pochi giorni dalla morte, la maggior parte dei detenuti testimoni del pestaggio mortale furono deportati nei loro Paesi d’origine e con una violenta operazione, definita “bonifica”, i telefoni dei reclusi furono sequestrati impedendo i contatti con l’esterno per molti giorni.
In seguito e con fretta, sono state rese pubbliche delle dichiarazioni rilasciate dai medici legali il giorno stesso dell’autopsia, che imputavano la morte a un edema polmonare, escludendo implicitamente il decesso a seguito del pestaggio. I risultati dell’autopsia, invece, non sono mai stati resi noti.
Evidente è il tentativo di mettere sotto il tappeto” quanto avvenuto e far dimenticare Vakhtang e la morte in seguito a un pestaggio. Altrettanto chiara è l’operazione politica condotta per cercare di mettere a tacere chi lotta per lo smantellamento di questo lager.
 
Ad ora, nulla si sa sulla prosecuzione delle indagini e su eventuali indagati. Nulla si sa del risultato dell’autopsia. Nulla si sa dei testimoni, se non quello che ci hanno raccontato loro in prima persona, dopo essere stati rimpatriati frettolosamente. 
La totale mancanza di trasparenza da parte della Procura dimostra quello che era prevedibile: che non c’è nessun impegno da parte delle istituzioni per giungere alla verità e che anzi si vogliano insabbiare le responsabilità di qualcuno, come già troppe volte è successo in Italia. 
Non lo uccise la morte ma una decina di guardie bigotte che gli cercarono l’anima a forza di botte

A pensar male… ancora due parole sulla cooperativa EDECO

Lo scorso agosto, la cooperativa padovana EDECO si aggiudicava la gestione del CPR di Gradisca d’Isonzo; su queste pagine si raccontò già qualcosa a riguardo.
Nelle ultime settimane, lo stato di emergenza ha congelato anche l’attività dei tribunali, così in quello di Padova non si è potuta tenere, il 3 marzo scorso, la prima udienza del processo denominato “Business dell’accoglienza”. Il processo vede accusati a vario titolo alcuni fra i vecchi responsabili della cooperativa Edeco e ben tre ex-dipendenti della prefettura padovana, per fatti risalenti al periodo 2015-2017. Si tratta di Simone Borile (ex-presidente), la moglie Sara Felpati (vice-presidente), Gaetano Battocchio e Annalisa Carraro (consiglieri di amministrazione), Pasquale Aversa (vice-prefetto all’epoca dei fatti), i funzionari Patrizia Quintario e Alessandro Sallusto ed alcuni altri
Come riportato nei media, le accuse su cui si basa il proceso riguardano la qualità dei servizi offerti, il trattamento riservato alle persone e le strategie di vincita degli appalti, per citarne alcune: cibo scarso e avariato, servizi igienici indegni, cura e assistenza assenti, persone sane tenute con altre malate di varicella e scabbia, maltrattamenti, documenti falsi ai Comuni per aggiudicarsi gli Sprar locali,flusso di informazioni riservate su ispezioni e controlli dalla Prefettura alla coop, bandi scritti su misura, poi in effetti vinti. Il tutto grazie alla copertura delle autorità prefettizie, pronte a oliare e favorire un sistema in grado di generare bilanci da 15 milioni di euro. 
Tuttavia EDECO matura così l’esperienza necessaria e, in attesa che la solita farsa della giustizia da tribunale si compia, non si perde d’animo e si candida al bando di gara per la gestione dell’ex-caserma Polonio di Gradisca d’Isonzo (l’attuale CPR). Al bando, al quale avevano partecipato 14 aziende e cooperative italiane e persino estere, arriva quinta. Ma, fatto assai singolare, le prime quattro sono estromesse per carenze nella documentazione presentata e la Prefettura goriziana, a guida Massimo Marchesiello e Antonino Gulletta, non può far altro che assegnare l’agognato appalto a EDECO. A pensar male… è arrivato il salto di qualità, da asili nido e scuole dell’infanzia agli Sprar, agli hub, ai CAS di Conetta (Venezia), Bagnoli (Padova) e Oderzo (Treviso), fino ai moderni lager di Stato, i CPR! 
Ad ogni modo, la lista degli intrighi e delle violazioni commesse per far andare avanti il carrozzone non ci interessa granché: non sono stati i primi e non saranno gli ultimi a cercare di far soldi sulla pelle di centinaia di uomini e donne rinchiuse e costrette in condizioni miserabili e soggette a continui ricatti, soprusi e violenze.
Tra novembre e dicembre, Sara Felpati e Annalisa Carraro in persona hanno svolto i colloqui di assunzione nel goriziano. In questi, chiarivano amichevolmente agli aspiranti operatori/mediatori che non avrebbero fatto un lavoro “di accoglienza” con gli “ospiti”, non precisando di che tipo di altro lavoro si sarebbe trattato.
Tutti i colloqui sono avvenuti nel silenzio, senza bando ed inizialmente ospitati dalla sede dei Gesuiti di Gorizia. A seguito di una contestazione a sorpresa, la sede dei colloqui è stata cambiata. A novembre la UIL goriziana ha cominciato ad aiutare EDECO, in difficoltà nel trovare personale. I comunicati orgogliosi di UIL si possono trovare sulla stampa locale, il loro supporto ha permesso un passaggio di lavoratori dal CARA al CPR.
Il giorno dell’apertura deduciamo dai commenti dei detenuti che i mandati di EDECO ai suoi lavoratori fossero diventati chiari: gli “ospiti” sarebbero sempre dovuti stare chiusi in cella, il cibo doveva essere passato loro sotto le sbarre, il campo da calcio e la mensa non si sarebbero mai dovuti aprire e all’interno del CPR doveva esserci una presenza di forze dell’ordine costante. 
A meno di un mese dell’apertura una maxi fuga coordinata ha permesso a cinque detenuti di fuggire, molti altri sono stati bloccati fuori e dentro il CPR. Pochi giorni dopo è morto Vakhtang. 
I detenuti raccontano che non gli vengono mai dati prodotti per l’igiene, cambi vestiti e biancheria, che il cibo causa problemi intestinali, che non possono mai uscire oltre la gabbia se non per andare in infermieria, che ricevono un trattamento meschino e razzista e che vengono puniti dalla polizia sotto richiesta degli altri lavoratori.
Vakhtang è il secondo morto avvenuto sotto gestione di EDECO, dopo Sandrine Bakayoko, nel gennaio 2017 a Conetta (VE).
Non sappiamo chi ci sia ad oggi a capo di questa cricca che opera all’interno del CPR di Gradisca insieme a esercito e polizia di ogni genere e tipo. Sappiamo però che neanche a un mese dalla sua apertura è stato ucciso un uomo al suo interno, che in diversi hanno tentato il suicidioe che molti altri sono stati picchiati e repressi in vari modi per aver tentato di ribellarsi alle condizioni di prigionia cui sono sottoposti, come ci hanno raccontatoQualche settimana fa, alcuni di loro hanno risposto con uno sciopero della fame e poi appiccando il fuoco alle loro gabbie, apportando danni ingenti alla struttura.
A queste persone va tutta la nostra solidarietà; agli aguzzini a ogni livello, con e senza divisa, tutto il nostro odio e disprezzo.
CHI GESTISCE UN CPR, COME UN QUALSIASI CARCERE, È COMPLICE DELLA SUA ESISTENZA.
FUOCO ALLE GALERE, FUOCO AI CPR!

LE CONTRADDIZIONI CHE AFFIORANO: AGGIORNAMENTI DA GRADISCA 08.04.2020

Ancora una volta, nel CPR di Gradisca D’Isonzo, l’intensificarsi del clima di terrore risulta essere l’unica via praticata per tenere sotto controllo la situazione all’interno: nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione delle testimonianze dell’ultimo pestaggio avvenuto all’interno del CPR, a diversi detenuti sono stati requisiti i telefoni, con l’obiettivo di poter individuare i “responsabili” della fuoriuscita delle informazioni. Si tratta di dinamiche già viste tre mesi fa, subito dopo la morte di Vakhtang Enukidze, quando i reclusi tentarono di smentire la narrazione ufficiale, che attribuiva a una “rissa tra detenuti” le cause della morte all’interno della struttura. In quel caso, a tutti i reclusi, molti dei quali avevano raccontato del pestaggio che Vakhtang aveva subito da parte delle guardie del CPR,vennero temporaneamente sottratti i cellulari, mentre la quasi totalità dei testimoni venne rimpatriata, anche verso Paesi dittatoriali come l’Egitto. Il sequestro dei cellulari, in quel caso, fu definito dalla procura come “una bonifica” con lo scopo di favorire le indagini.

In una struttura in cui gran parte dei pestaggi non possono essere attestati, poiché avvengono intenzionalmente in zone non coperte dalle telecamere, si continua a reprimere oltre che fisicamente anche psicologicamente attraverso ritorsioni come quella di togliere l’unico mezzo che le persone detenute hanno per comunicare con i propri familiari.

Nell’ultimo video che abbiamo pubblicato si vede immortalato un ragazzo accasciato per terra a seguito di un pestaggio. Attualmente sta ancora male; ci dicono essere pieno di lividi e di non aver ricevuto le cure mediche adeguate. Ci raccontano che il pestaggio in questione aveva coinvolto anche un’altra persona e che, in entrambi casi, il “motivo” sarebbe una sorta di rivolta nella quale i due avevano” bloccato i lucchetti delle porte per non farli entrare o agli operatori”. I detenuti ci raccontano che una volta entrati, i poliziotti hanno picchiato i due ragazzi in un punto cieco, privo di telecamere; hanno quindi sedato il ragazzo presente nel video e portato in ospedale,riconducendo le condizioni fisiche a un “episodio di autolesionismo”; infine, ci riferiscono che una volta riportato nel CPR, i poliziotti hanno sporto denuncia contro di lui.

La pratica del pestaggio nei punti ciechi ci è già stata raccontata molte volte. Il 19 gennaio, al presidio a seguito della morte di Vakhtang, tutte le persone presenti ricorderanno le continue chiamate che ci arrivavano dai detenuti terrorizzati, i quali ci raccontavano che venivano presi uno a uno, buttati fuori dalle celle, picchiati e rimessi dentro.

Ad oggi, né l’impossibilità di garantire condizioni sanitarie sicure né il blocco delle deportazioni nei Paesi d’origine (che annulla la funzione ufficiale dei CPR) appaiono sufficienti a far chiudere i CPR o quantomeno a bloccare gli arrivi nelle strutture: risale a soli tre giorni fa l’ultimo ingresso all’interno della struttura. Dopo esser stato sanzionato per l’illecito amministrativo della violazione delle norme anti-contagio a Udine, un ragazzo di 24 anni è stato infatti rinchiuso nel CPR di Gradisca, la stessa struttura in cui era stato certificato un caso positivo al Coronavirus.

In un’intervista a Repubblica del 4 aprile, dopo delle considerazioni generali sul rischio di contagio nel CPR e nel CARA, la sindaca di Gradisca Linda Tomasinsig (PD) dichiarava: «Ma quello che io temo, e su cui sto cercando di richiamare l’attenzione, è: cosa succede ai reclusi se, scaduta la decorrenza dei termini, vengono messi fuori». Il giorno seguente, in un’intervista apparsa sul Piccolo dichiarava : «Le persone rilasciate non avendo né mezzi, né rete familiare, si trovano a vagare nel comune o in quelli limitrofi dormendo all’addiaccio».

Questo tipo di narrazione identifica implicitamente le persone recluse con dei potenziali untori che, una volta liberati dalla loro prigione, escono a infettare la cittadinanza gradiscana. Inoltre, riduce le persone detenute ad una massa di nullatenenti, parassiti dello Stato e senza famigliari ed amici a cui rivolgersi, come invece avremmo tutti noi se liberati da un posto del genere.  Il discorso della sindaca ha connotati spudoratamente razzisti, degni di un partito di estrema destra; infatti, la Lega gradiscana dal canto suo sostiene che la liberazione dei detenuti del CPR scatenerebbe sicuramente un contagio fuori controllo nella popolazione. In realtà, le cose stanno proprio al contrario: sono le guardie e i lavoratori del CPR che, entrando nel lager, possono portare il contagio alle persone recluse, creando un problema di salute pubblica. Nel CPR, il contagio si diffonderebbe molto velocemente, date le condizioni di promiscuità in cui si è costretti a vivere là dentro anche durante questa fase di distanziamento sociale, e quindi le risorse sanitarie necessarie per far fronte alla situazione sarebbero maggiori, a meno che l’idea non sia abbandonare i reclusi malati a sé stessi. Inoltre, chiunque abbia una minima conoscenza della realtà dei reclusi nei CPR sa che la maggioranza dei detenuti sono persone che sanno la nostra lingua, che hanno lavorato in Italia per anni, che hanno in Italia famiglia e affetti e che non hanno alcun interesse a fermarsi a Gradisca d’Isonzo. Sono persone che hanno avuto la sfortuna di aver ricevuto un controllo dei documenti in un momento in cui c’era un posto libero in qualche CPR, ma che condividono con decine di migliaia di altre persone in Italia la difficoltà nell’avere un documento regolare e il conseguente ricatto del CPR. Per esempio, la settimana scorsa è stato liberato un ragazzo, detenuto da 4 mesi, che ha potuto così raggiungere la sua compagna incinta e le sue due figlie piccole.

Oltre al CPR, a Gradisca esiste il CARA limitrofo in cui la situazione è molto pericolosa: al momento vi sono confinate 180 persone, costrette in condizioni simili a quelle dei reclusi nel CPR, a causa delle misure repressive e di controllo adottate con lo stato d’emergenza. La vita dei reclusi è a rischio, anche per questo chiediamo la loro immediata liberazione.

L’unica persona che è noto si sia fermata a Gradisca dopo la liberazione dal CPR è stata portata più volte al CARA dal quale se n’è andata preferendo la strada, come ha dichiarato la stessa sindaca.

In un momento come quello attuale, l’esistenza di una struttura come il CPR si palesa in tutte le sue paradossali contraddizioni. Continueremo a sostenere la lotta dei reclusi fin quando non vedremo tutti i muri dei CPR cadere.