INFORMAZIONI SULLO SGOMBERO DELLO SQUAT A SID (Serbia)

A Sid, al confine tra Croazia e Serbia, c’è un gruppo di attivisti solidali e  volontari dell’organizzazione indipendente “No Name Kitchen” . Persone che passano le giornate con chi cerca di attraversare la frontiera europea ma si rifiuta di permanere nei campi governativi serbi, fornendo cibo per cucinare assieme, docce, aiuto medico quando le persone tornano dopo un respingimento -sempre violento- svolto dalla polizia croata e slovena soprattutto -ma anche italiana- e altre poche cose di prima necessità. Il punto di ritrovo giornaliero tra attivisti e migranti era, da molto tempo, un vecchio edificio diroccato nella jungle di Sid, chiamato Squat, al cui interno vi erano anche alcune tende.

Il 20 febbraio è stato violentemente sgomberato, qui il resoconto della giornata, scrittoci da un attivista.


LA NOSTRA SOLIDARIETÀ E IL NOSTRO AFFETTO VANNO AI MIGRANTI E ALLE ATTIVISTE ED ATTIVISTI A SID.


All’alba, con il supporto di unità e mezzi non locali, la polizia di Šid inizia a muoversi in direzione della fabbrica abbandonata. Riceviamo le prime chiamate e richieste di aiuto dai migranti alle 6:40 e ci muoviamo immediatamente. Con il furgoncino cerchiamo di andare allo squat il più rapidamente possibile, e quando ci avviciniamo stimiamo a spanne che siano presenti 30-40 agenti e 15 tra furgoncini e pantere. Cerchiamo di entrare allo squat e registrare video, e subito veniamo fermati e condotti alla stazione di polizia locale, dove vediamo tutti i migranti dello squat. Stanno in un recinto, tranquilli ma sorvegliati da un ingente numero di poliziotti e incerti su quello che accadrà. Riusciamo ad avvicinarci e immediatamente riportano a metà tra il pashto e l’inglese:

“Khema, telephone, kampal, money: tool hatamdi. Police boxing” (Tende, telefoni, coperte, soldi: tutto finito. La polizia ci ha picchiati).
Alcuni zoppicano, altri tengono una mano sulla testa, sul volto o sugli arti. Evidentemente molti di loro sono feriti.
Nel frattempo 3 di noi sono in un ufficio della stazione di polizia, così che possiamo vedere tutto quello che succede nel giardino. La scena riporta alla mente i film ambientati in Germania attorno al 1942.

Ore 7:20: gli altri volontari, allertati dal gruppo delle 6:40, arrivano alla stazione di polizia

Un’altra volontaria si avvicina alla stazione di polizia per sorvegliare quello che sta accadendo all’interno. Riesce a vedere parte dei migranti chiusi nel recinto e sorvegliati. Cerca di avvicinarsi ma viene respinta. Poco dopo, altre quattro la raggiungono e due di loro decidono di provare a girare un video col telefono per segnalare eventuali violenze o irregolarità. Un agente di alto grado mima il gesto dell’indice che passa sul collo. A quel punto le due vengono trascinate dentro la stazione di polizia fino al cortile dove le persone sono ammassate dentro al recinto. Dalla finestra possiamo sentire che gli animi sono caldi, e riusciamo finalmente a vedere un vespaio di poliziotti chinati per terra, dal quale dopo qualche secondo emerge la figura di una delle due volontarie. La stessa cosa succede con l’altra, l’immagine è quella di una ragazza minuta strattonata per i capelli da almeno 4 agenti. Il più basso gira sul metro e ottantacinque per 85 chili. Gli strattoni non terminano, e in un paio di minuti le due vengono trascinate nell stessa nostra stanza. Una delle due viene letteralmente appesa al muro da un poliziotto evidentemente sovreccitato. La regge per il collo con una mano in modo tale che lei non riesce a respirare. Misuro questo agente, è nettamente più alto di me e io sono alto un metro e ottanta. La ragazza non supera il metro e sessanta. Seguono attimi di tensione che infine riusciamo a sedare.

Le tre volontarie che non erano entrate nella stazione di polizia vanno allo squat per cercare di limitare i danni: salvare le tende, le coperte e gli zaini, recuperare i cavi del sistema elettrico, le luci, e la tanica d’acqua dalla distruzione e per avvertire i migranti in procinto di tornare allo squat dal game di starci alla larga. Trovano i lavoratori dell’azienda incaricata di trarre tutti gli oggetti presenti allo squat in discarica, uno di loro inizia a registrare le volontarie e chiama al polizia. Le volontarie spiegano, sia ai lavoratori che ai poliziotti sopraggiunti, che tutto il materiale presente nello squat appartiene a No Name Kitchen e che si tratta di donazioni internazionali a carattere umanitaria. I 4 agenti stringono in mano il manganello. Le volontarie iniziano a caricare il nostro furgoncino con tutto quello che possono trovare, ma vengono nuovamente fermate dalla polizia, che ci spiega che lo sgombero è stato voluto dal proprietario e che ha chiesto che venga tutto rimosso. Comunque assicurano loro che potremo recuperare tutto il materiale, intatto, nel pomeriggio. (Questa mattina abbiamo contattato il proprietario che ci ha detto di essere allo scuro di tutto quanto). Le tre vengono poi fatte entrare in un furgoncino della polizia e condotte nella stazione di polizia e negate della possibilità di chiamare chicchessia, altri volontari, avvocato o ambasciata. Là il gruppo si ricompatterà.

Ore 9:30: tutti i volontari si trovano alla stazione di polizia e inizia il trasporto dei migranti nei campi serbi

Il gruppo di volontari si ricompatta nell’ufficio della stazione di polizia da dove si vede il cortile antistante. L’attenzione degli agenti è incentrata sui migranti, il nostro fermo pare essere dovuto a evitare che registriamo video o raccogliamo prove degli abusi e delle violenze. I nostri cellulari sono requisiti e riceviamo ripetuti ordini di sbloccarli affinché i video possano essere cancellati. Non abbiamo accesso a un avvocato nonostante le continue richieste. Chiediamo:

  • What are you going to do with our mobile phones?

  • Nothing special.

  • The same thing you did to the migrants’ phones?

  • Yes.

Tutti gli agenti, alla vista della ragazza che era stata palpata, minacciata e stretta per la gola contro il muro, cercano disperatamente di non ridacchiare. Non tutti ce la fanno. Un agente anziano, a un novellino, comunica in serbo:

  • Guarda quante ragazze da tutto il mondo, ne puoi scegliere una per questa notte.

L’aggressività degli agenti cresce nuovamente quando ci obbligano ad andare in una seconda stanza per essere denudati, controlli supplementari. Il nostro sospetto è che mirino all’umiliazione e non al controllo di sicurezza, e quindi cerchiamo di rifiutarci per quanto possiamo. Quando viene detto esplicitamente che la procedura sarà attuata anche in modo coatto finalmente accettiamo. A una a una le volontarie vengono condotte in una stanza e spogliate. Quando arriva il mio turno (sono un ragazzo), mi alzo ma vengo fermato: i controlli non sono necessari. A questo punto ci guardiamo tutte quante, è evidente che non ci siano dubbi attorno alla nostra eventuale pericolosità perché io non vengo in nessun momento controllato (dentro le mie tasche avrei potuto avere qualsiasi cosa al posto del portafoglio) e che i controlli abbiano seguito il solo criterio dell’identità di genere. Erano mirati all’umiliazione. Rimaniamo nella stazione di polizia fino all’una, in attesa che il trasporto dei migranti sia completo.

Il giorno dopo

Le nostre considerazioni su quanto accaduto ieri sono concordanti. La violenza della polizia sui migranti è inutile, lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere senza l’impiego della forza. Privarli dei pochi beni che possiedono significa gettarli ulteriormente nell’indigenza. Gli abusi subiti dalle due volontarie (così come quelli subiti dai migranti, dei quali siamo ancora a conoscenza di una minima parte a dire il vero) si sono verificati da un lato per una scarsissima sensibilità dell’intero personale della polizia di Šid in tema di diritti civili e umani, e dall’altro per lo stato d’animo sovreccitato e assai poco professionale degli agenti che si sono mostrati, quando non aggressivi, ilari ed elettrizzati. La nostra pericolosità sta nella possibilità di far uscire la notizia attraverso le nostre testimonianze e i video. Se decideremo di pubblicarli sappiamo che soffriremo delle ripercussioni, perché agli agenti, coscienti non poterli eliminare permanentemente, hanno già avanzato le minacce del caso. La loro azione è stata possibile unicamente perché i rapporti di forza tra noi, i migranti e loro non corrispondono ai limiti stabiliti dalla legislazione serba. Durante tutto il corso della giornata il personale dei campi, che pure ci tiene a precisare di appartenere al commissariato e non alle forze di polizia, si è mostrato a tratti cosciente degli abusi della polizia ma connivente, a tratti complice e aggressivo. In generale, raccogliere le informazioni dei migranti esclusivamente nei campi risponde ad una logica perversa: se la presenza di campi si rende necessaria in contesti di emergenze umanitarie per distribuire generi di prima necessità e proteggere gli esodati, nei Balcani i campi si rendono utili unicamente per spostare i migranti lontano dalle città.