INFORMAZIONI SULLO SGOMBERO DELLO SQUAT A SID (Serbia)

A Sid, al confine tra Croazia e Serbia, c’è un gruppo di attivisti solidali e  volontari dell’organizzazione indipendente “No Name Kitchen” . Persone che passano le giornate con chi cerca di attraversare la frontiera europea ma si rifiuta di permanere nei campi governativi serbi, fornendo cibo per cucinare assieme, docce, aiuto medico quando le persone tornano dopo un respingimento -sempre violento- svolto dalla polizia croata e slovena soprattutto -ma anche italiana- e altre poche cose di prima necessità. Il punto di ritrovo giornaliero tra attivisti e migranti era, da molto tempo, un vecchio edificio diroccato nella jungle di Sid, chiamato Squat, al cui interno vi erano anche alcune tende.

Il 20 febbraio è stato violentemente sgomberato, qui il resoconto della giornata, scrittoci da un attivista.


LA NOSTRA SOLIDARIETÀ E IL NOSTRO AFFETTO VANNO AI MIGRANTI E ALLE ATTIVISTE ED ATTIVISTI A SID.


All’alba, con il supporto di unità e mezzi non locali, la polizia di Šid inizia a muoversi in direzione della fabbrica abbandonata. Riceviamo le prime chiamate e richieste di aiuto dai migranti alle 6:40 e ci muoviamo immediatamente. Con il furgoncino cerchiamo di andare allo squat il più rapidamente possibile, e quando ci avviciniamo stimiamo a spanne che siano presenti 30-40 agenti e 15 tra furgoncini e pantere. Cerchiamo di entrare allo squat e registrare video, e subito veniamo fermati e condotti alla stazione di polizia locale, dove vediamo tutti i migranti dello squat. Stanno in un recinto, tranquilli ma sorvegliati da un ingente numero di poliziotti e incerti su quello che accadrà. Riusciamo ad avvicinarci e immediatamente riportano a metà tra il pashto e l’inglese:

“Khema, telephone, kampal, money: tool hatamdi. Police boxing” (Tende, telefoni, coperte, soldi: tutto finito. La polizia ci ha picchiati).
Alcuni zoppicano, altri tengono una mano sulla testa, sul volto o sugli arti. Evidentemente molti di loro sono feriti.
Nel frattempo 3 di noi sono in un ufficio della stazione di polizia, così che possiamo vedere tutto quello che succede nel giardino. La scena riporta alla mente i film ambientati in Germania attorno al 1942.

Ore 7:20: gli altri volontari, allertati dal gruppo delle 6:40, arrivano alla stazione di polizia

Un’altra volontaria si avvicina alla stazione di polizia per sorvegliare quello che sta accadendo all’interno. Riesce a vedere parte dei migranti chiusi nel recinto e sorvegliati. Cerca di avvicinarsi ma viene respinta. Poco dopo, altre quattro la raggiungono e due di loro decidono di provare a girare un video col telefono per segnalare eventuali violenze o irregolarità. Un agente di alto grado mima il gesto dell’indice che passa sul collo. A quel punto le due vengono trascinate dentro la stazione di polizia fino al cortile dove le persone sono ammassate dentro al recinto. Dalla finestra possiamo sentire che gli animi sono caldi, e riusciamo finalmente a vedere un vespaio di poliziotti chinati per terra, dal quale dopo qualche secondo emerge la figura di una delle due volontarie. La stessa cosa succede con l’altra, l’immagine è quella di una ragazza minuta strattonata per i capelli da almeno 4 agenti. Il più basso gira sul metro e ottantacinque per 85 chili. Gli strattoni non terminano, e in un paio di minuti le due vengono trascinate nell stessa nostra stanza. Una delle due viene letteralmente appesa al muro da un poliziotto evidentemente sovreccitato. La regge per il collo con una mano in modo tale che lei non riesce a respirare. Misuro questo agente, è nettamente più alto di me e io sono alto un metro e ottanta. La ragazza non supera il metro e sessanta. Seguono attimi di tensione che infine riusciamo a sedare.

Le tre volontarie che non erano entrate nella stazione di polizia vanno allo squat per cercare di limitare i danni: salvare le tende, le coperte e gli zaini, recuperare i cavi del sistema elettrico, le luci, e la tanica d’acqua dalla distruzione e per avvertire i migranti in procinto di tornare allo squat dal game di starci alla larga. Trovano i lavoratori dell’azienda incaricata di trarre tutti gli oggetti presenti allo squat in discarica, uno di loro inizia a registrare le volontarie e chiama al polizia. Le volontarie spiegano, sia ai lavoratori che ai poliziotti sopraggiunti, che tutto il materiale presente nello squat appartiene a No Name Kitchen e che si tratta di donazioni internazionali a carattere umanitaria. I 4 agenti stringono in mano il manganello. Le volontarie iniziano a caricare il nostro furgoncino con tutto quello che possono trovare, ma vengono nuovamente fermate dalla polizia, che ci spiega che lo sgombero è stato voluto dal proprietario e che ha chiesto che venga tutto rimosso. Comunque assicurano loro che potremo recuperare tutto il materiale, intatto, nel pomeriggio. (Questa mattina abbiamo contattato il proprietario che ci ha detto di essere allo scuro di tutto quanto). Le tre vengono poi fatte entrare in un furgoncino della polizia e condotte nella stazione di polizia e negate della possibilità di chiamare chicchessia, altri volontari, avvocato o ambasciata. Là il gruppo si ricompatterà.

Ore 9:30: tutti i volontari si trovano alla stazione di polizia e inizia il trasporto dei migranti nei campi serbi

Il gruppo di volontari si ricompatta nell’ufficio della stazione di polizia da dove si vede il cortile antistante. L’attenzione degli agenti è incentrata sui migranti, il nostro fermo pare essere dovuto a evitare che registriamo video o raccogliamo prove degli abusi e delle violenze. I nostri cellulari sono requisiti e riceviamo ripetuti ordini di sbloccarli affinché i video possano essere cancellati. Non abbiamo accesso a un avvocato nonostante le continue richieste. Chiediamo:

  • What are you going to do with our mobile phones?

  • Nothing special.

  • The same thing you did to the migrants’ phones?

  • Yes.

Tutti gli agenti, alla vista della ragazza che era stata palpata, minacciata e stretta per la gola contro il muro, cercano disperatamente di non ridacchiare. Non tutti ce la fanno. Un agente anziano, a un novellino, comunica in serbo:

  • Guarda quante ragazze da tutto il mondo, ne puoi scegliere una per questa notte.

L’aggressività degli agenti cresce nuovamente quando ci obbligano ad andare in una seconda stanza per essere denudati, controlli supplementari. Il nostro sospetto è che mirino all’umiliazione e non al controllo di sicurezza, e quindi cerchiamo di rifiutarci per quanto possiamo. Quando viene detto esplicitamente che la procedura sarà attuata anche in modo coatto finalmente accettiamo. A una a una le volontarie vengono condotte in una stanza e spogliate. Quando arriva il mio turno (sono un ragazzo), mi alzo ma vengo fermato: i controlli non sono necessari. A questo punto ci guardiamo tutte quante, è evidente che non ci siano dubbi attorno alla nostra eventuale pericolosità perché io non vengo in nessun momento controllato (dentro le mie tasche avrei potuto avere qualsiasi cosa al posto del portafoglio) e che i controlli abbiano seguito il solo criterio dell’identità di genere. Erano mirati all’umiliazione. Rimaniamo nella stazione di polizia fino all’una, in attesa che il trasporto dei migranti sia completo.

Il giorno dopo

Le nostre considerazioni su quanto accaduto ieri sono concordanti. La violenza della polizia sui migranti è inutile, lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere senza l’impiego della forza. Privarli dei pochi beni che possiedono significa gettarli ulteriormente nell’indigenza. Gli abusi subiti dalle due volontarie (così come quelli subiti dai migranti, dei quali siamo ancora a conoscenza di una minima parte a dire il vero) si sono verificati da un lato per una scarsissima sensibilità dell’intero personale della polizia di Šid in tema di diritti civili e umani, e dall’altro per lo stato d’animo sovreccitato e assai poco professionale degli agenti che si sono mostrati, quando non aggressivi, ilari ed elettrizzati. La nostra pericolosità sta nella possibilità di far uscire la notizia attraverso le nostre testimonianze e i video. Se decideremo di pubblicarli sappiamo che soffriremo delle ripercussioni, perché agli agenti, coscienti non poterli eliminare permanentemente, hanno già avanzato le minacce del caso. La loro azione è stata possibile unicamente perché i rapporti di forza tra noi, i migranti e loro non corrispondono ai limiti stabiliti dalla legislazione serba. Durante tutto il corso della giornata il personale dei campi, che pure ci tiene a precisare di appartenere al commissariato e non alle forze di polizia, si è mostrato a tratti cosciente degli abusi della polizia ma connivente, a tratti complice e aggressivo. In generale, raccogliere le informazioni dei migranti esclusivamente nei campi risponde ad una logica perversa: se la presenza di campi si rende necessaria in contesti di emergenze umanitarie per distribuire generi di prima necessità e proteggere gli esodati, nei Balcani i campi si rendono utili unicamente per spostare i migranti lontano dalle città.

 

Domenica 3 Marzo h. 17:00 Bar Knulp

PRESESENTAZIONE E MOSTRA SUGLI INTERESSI ITALIANI IN LIBIA

La Libia è stata colonia italiana dal 1911 alla Seconda guerra mondiale: un territorio che ha resistito ininterrottamente al tentativo di penetrazione e soggiogamento dei colonialisti liberali e poi fascisti. Oggi è il punto di convergenza delle rotte migratorie africane ed è anche la terra più ricca di petrolio (38% del petrolio africano) e più politicamente instabile dell’Africa mediterranea. Capire cosa succede lì è fondamentale per affrontare il discorso migratorio da un punto di vista strutturale e anti-retorico.

In questo incontro, ricostruiremo la storia della «cooperazione» tra Italia e Libia nel contrasto dei movimenti migratori irregolari (ad es., attraverso la cessione di mezzi di pattugliamento, la costruzione di lager detentivi e il progetto della costruzione di un muro alla frontiera meridionale), ripercorrendo tutti gli accordi ufficiali, non ufficializzati e segreti firmati a partire dal 2003. Faremo una mappatura delle aziende italiane presenti sul territorio libico, che muovono miliardi di dollari con l’estrazione del petrolio e del gas e con la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali, e parleremo in particolare del ruolo geopolitico dell’ENI. Racconteremo come le stesse milizie che presidiano i pozzi petroliferi e che si sono arricchite per mesi con il «traffico illegale» di persone siano ora pagate dall’Italia per impedirlo.

La storia e il presente della Libia mostrano con violenza come la questione migratoria contemporanea sia all’incrocio di equilibri economici e geopolitici e muova capitali e guerre di potere e di influenza. La destabilizzazione politica e sociale portata avanti dai Paesi a capitalismo avanzato nei Paesi dai quali provengono i flussi migratori è la causa fondante della necessità delle persone di spostarsi.

L’atteggiamento di umanitarismo pietista verso le persone migranti è allora pericoloso quasi quanto la chiusura razzista, perché allo stesso modo non ne riconosce la piena capacità di decidere per sé stesse e le pone a un livello inferiore della gerarchia degli esseri umani.

Al contrario, partiamo dalla presa di coscienza delle responsabilità dirette del modello «di sviluppo» italiano, e non solo, nella devastazione neocoloniale di una parte del mondo – la parte da dove si è costrette/i a partire. E iniziamo a muoverci di conseguenza.

Qui il volantino

I CONFINI UCCIDONO

I CONFINI UCCIDONO

SABATO 8 DICEMBRE H 11:00 PRESIDIO IN PIAZZALE MONTE RE AD OPICINA (TS) IN SOLIDARIETÀ ALLE PERSONE FERITE NELL’INCIDENTE CAUSATO DALL’INSEGUIMENTO DEI MILITARI.

Martedì 4 dicembre a Opicina (TS) è avvenuto un grave incidente che ha visto coinvolti un furgone con a bordo dodici persone migranti ammassate e un’auto con tre persone locali. Mentre veniva inseguito dai carabinieri per non essersi fermato a un posto di blocco al confine,il furgone ha tamponato l’automobile. Ci sono stati 17 feriti: alcuni sono gravi.

Quanto è accaduto è solo uno dei tanti episodi che avvengono quotidianamente lungo la cosidetta “rotta balcanica”, percorso duro, pericoloso e costoso attraversato quotidianamente da persone di diversi Paesi per entrare nella “fortezza Europa”, per cercare una vita migliore o per sottrarsi a persecuzioni, guerre, catastrofi ambientali.

In questi mesi, il collo di bottiglia (cioè il punto più duro e pericoloso della rotta) è l’attraversamento della Croazia e della Slovenia. Si tratta di Paesi europei che, grazie ai finanziamenti EU, bloccano sistematicamente i migranti in rotta non permettendo la richiesta asilo, li consegnano a squadre speciali di polizia croata che li umiliano e pestano per poi respingerli oltre la fortezza (in Bosnia o in Serbia).

Questa prassi è quotidiana e documentata. Molte persone non ce la fanno a riprovare immediatamente dopo essere state respinte e rimangono così bloccate nei campi profughi in Bosnia e Serbia, costrette in condizioni terribili, alcune volte letali. Chi non viene respinto, alcune volte ce la fa, altre muore, come è successo dieci giorni fa a Nassim, di Tizi Ghneif (Al Mizan, Algeria) di 25 anni, morto annegato in Slovenia, nel fiume Reka, nei pressi di Topolc mentre scappava dalla polizia; o a Ibrahim Ahmad, di Damasco (Siria) di 44 anni, che è stato visto l’ultima volta pochi giorni fa, cadendo nel fiume Dobra tra Croazia e Slovenia. I compagni di viaggio di Nassim, sono stati picchiati e respinti in Bosnia, compreso uno che è prima stato portato in ospedale perché collassato nel vedere Nassim non riemergere dal fiume.

Tutto ciò avviene perché le persone non hanno la possibilità di muoversi liberamente in Europa, perché esistono confini chiusi il cui attraversamento legale è concesso con il contagocce a poche persone privilegiate, e per la maggior parte delle persone è impossibile. Per questo, le uniche vie che possono essere tentate per entrare nella “fortezza” sono le marce notturne nei boschi, o nascondersi sotto i camion o nei container, o ancora pagare qualcuno per dei passaggi o dei consigli (i cosidetti trafficanti o passeurs o smugglers) o ammassarsi in un furgoncino.

L’inseguimento di martedì viene da questa situazione: sarebbe potuto finire con altre morti causate dal confine.

Rifiutiamo in maniera assoluta la retorica che vuole criminalizzare per l’accaduto quelle 12 persone che si stavano giocando la vita, per ritrovarne una. A loro va la nostra solidarietà, come a tutte le persone ferite nell’incidente.

Rifiutiamo anche la retorica manipolatrice che grida all’inumanità degli smugglers via terra, cercando di additarli come il problema di questa situazione. Gli smugglers sono persone che sfruttano economicamente l’esistenza dei confini: esisteranno fino a quando esisteranno i confini e persone che vogliono attraversarli ma non possono farlo.

Il problema è che il confine è chiuso. Un confine chiuso è un pericolo per la vita di chi vuole attraversarlo. Chi arriva non è un pericolo, è una persona. Il pericolo sono i militari sul confine: è a causa dei militari sul confine che queste persone hanno rischiato di morire nell’incidente a Opicina e ogni giorno rischiano di morire nell’attraversare i confini della rotta balcanica.

[Il PD, in seguito all’accaduto, ha richiesto un inasprimento dei controlli, un turnover delle forze dell’ordine per bloccare i trafficanti di uomini, in un becero tentativo di oscurare, ancora, la realtà in cui viviamo.]

La colpa di questa situazione intollerabile è di chi esalta e chiude i confini, di chi promulga leggi razziste e costruisce lager per le persone senza documenti.

I confini uccidono ogni giorno, qui come ovunque nel mondo.

La libertà di circolazione per tutte e tutti è l’unica soluzione possibile e praticabile perché tutto questo finisca.

proti mejam! rabbia contro i confini e chi li difende! solidarietà senza frontiere!

ASSIEME DAVANTI AL CARA DI GRADISCA!

Dopo la riuscita manifestazione a Gradisca dello scorso 20 ottobre, ritorniamo davanti al CARA per un pomeriggio di incontro e protesta.
Un presidio per mantenere alta la tensione sul procedere dei lavori per la “riconversione” del CARA in lager di Stato (quei CPR previsti dall’ultimo governo PD, ora potenziati dall’attuale maggioranza penta-leghista), ma anche per riprendere il filo del lungo dialogo nato il 20 fra i partecipanti alla manifestazione e le persone costrette nel CARA.

Ci vediamo sabato 10, dalle 14.30 davanti al CARA di Gradisca.
Contro i CPR, contro ogni confine, contro le aberrazioni del “decreto Salvini”, per affrontare collettivamente i problemi di chi sta dentro e fuori da quelle mura!
Nessun lager aprirà, né a Gradisca né Altrove!

EMERGENZA FREDDO SULLA ROTTA BALCANICA: RACCOLTA COPERTE, SACCHI A PELO E CALZINI tg40-42!
La difficile situazione dei campi profughi nei Balcani precipita all’abbassarsi delle temperature; alcun* di noi porteranno rifornimenti nei prossimi giorni: porta al presidio i sacchi a pelo, le coperte e i calzini tg 40-42 che non usi.
IMPORTANTE: se non hai nulla da donare, ma vuoi contribuire alla raccolta, NON ACQUISTARE COSE NUOVE!; porta piuttosto il denaro: acquisteremo il materiale in prossimità dei campi (è molto più economico e non si corre il rischio dell’arbitrario sequestro da parte della polizia di frontiera).

INFORMAZIONI TECNICHE

  • Partenza alle ore 13, da piazza Oberdan, per chi si muove da Trieste; se hai bisogno/hai a disposizione un passaggio, contattaci!
  • In caso di pioggia il presidio si svolgerà comunque (salvo clima del tutto incompatibile con l’iniziativa): info e aggiornamenti sull’evento!

VOLANTINO IN DIVERSE LINGUE


Siamo l’assemblea No Cpr e no frontiere-Fvg, un gruppo con base a Trieste che lotta contro i confini e le pratiche a loro connesse.
Siamo state e stati a Gradisca sotto il Cara il 20 ottobre costruendo assieme a chi Là ci deve stare dentro un momento di confronto, protesta e festa.
Vorremmo continuare questo percorso assieme trovandoci sabato 10 novembre alle 14:30 accanto al Cara.
L’obiettivo è condividere informazioni, trovare assieme modi e pratiche per contrastare le strutture di prigionia attuali e future e stare assieme.


We are the No CPR and no frontiere-FVG assembly, a group based in Trieste that fights borders and the practices related to them, including CPRs. On 20 October we were in Gradisca in front of the CARA, discussing, protesting and celebrating alongside those who are detained inside. We would like to continue this journey together and will meet on Saturday 10 November at 2.30 pm next to the CARA. Our goal is to share information, explore ways and practices of countering current and future prison structures, and be together. [the event will be held in the case of light rain, but will be cancelled if it is raining heavily]


Nous sommes l’assemblée No CPR et no frontiere-FVG, un groupe basé à Trieste qui combat les frontières et les pratiques qui leur sont liées. Le 20 Octobre, nous étions devant le CARA de Gradisca pour construire avec les détenuEs un moment de réflexion, de protestation et de fête. Nous souhaitons poursuivre ces actions ensemble samedi 10 Novembre à 14h30 devant le CARA. L’objectif est de partager des informations, de définir ensemble des moyens et des pratiques pour lutter contre les structures carcérales actuelles et futures, et finalement pour être ensemble. [nous serons présents même en cas de pluie, sauf très forte.]

Giovedì 11 ottobre 2018

Uno dei motivi principali per cui la polizia croata è considerata Big Problém è che, al pushback e alle botte, aggiunge anche la distruzione dei cellulari. Come anche le forze dell’ordine ben sanno, la navigazione GPS è fondamentale per potersi orientare nei boschi e nelle campagne se si vuole avere una minima speranza di raggiungere Italia o Austria. Ma non solo: il telefono è necessario per ricevere denaro da casa per mezzo del servizio (criminale per inciso, le commissioni sforano il 10%) offerto da Western Union, per stare in contatto coi propri familiari lasciati da lungo tempo, per scambiare informazioni con gli amici che ci si fa durante il cammino e anche per giocare un po’ e rilassarsi durante le lunghe giornate, che sono fatte più o meno di sole attese. Attesa per la doccia, per il cibo, per l’acqua, per i Gillette con cui radersi, per il Game, per i treni o per gli smuggler. Il telefono può anche essere usato per filmare i soprusi o per ottenere prove schiaccianti sul punto in cui avviene il pushback.
Quello che pensavo fino a stamattina, anzi quello che davo un po’ per scontato, era che i cellulari venissero distrutti un po’ così, con un pestone o un colpo di manganello. Invece le forze dell’ordine fanno in modo di avere sempre a portata di mano un accendino per poter bruciare i pin di attacco della batteria, della memoria e della sim, in modo da rendere il cellulare, in un colpo solo, totalmente non funzionante e irrecuperabile. 
Dunque queste violenze non solo avvengono spessissimo di notte, ma dimostrano anche un sapere tecnico sul funzionamento degli apparecchi elettronici e una metodicità non indifferenti. Ma soprattutto: diventa impossibile negare che il comportamento delle forze dell’ordine croate segua una prassi ben precisa.   
 
Que se jode la yuta.
 
Un cellulare distrutto proprio ieri notte dalla polizia croata. Come si può ben vedere, tutti gli attacchi di cui parlo sono irrecuperabilmente bruciati. Il telefono è da buttare.
 
 

Martedì 9 ottobre 2018

L’altroieri le forze dell’ordine ci hanno sequestrato il furgone – con cui facciamo letterlamente tutto – un po’ per un cavillo burocratico e ora speriamo di rivederlo dopodomani. Il lavoro si è fatto improvvisamente più usurante ma quanto si sono divertiti i poliziotti.

CORTEO REGIONALE 20 OTTOBRE

NO CPR – CORTEO REGIONALE

SABATO 20 OTTOBRE – ORE 15:00 PIAZZALE DELL’UNITÀ (GRADISCA d’ISONZO)

Il 18 ottobre 1938, il governo fascista promulgava le leggi razziali. Nel 2018, i governi democratici ne hanno ereditato il mandato, segregando in centri di detenzione le persone senza documenti.

A Gradisca, vogliono iniziare i lavori per la trasformazione del CARA (ex-CIE) in CPR, Centro di Permanenza per il Rimpatrio. I CPR – come già CIE e CPT – sono dei lager. Le persone vengono imprigionate per il solo fatto di non possedere un permesso di soggiorno. Le condizioni di vita dentro i CPR sono pessime. Il loro mantenimento (costosissimo!) arricchisce cooperative e imprese speculatrici.

Formalmente, le persone vengono rinchiuse per essere rimpatriate: opzione inaccettabile per chi ha rischiato la vita per attraversare frontiere. La finalità effettiva dei CPR è però quella di rafforzare il mantenimento di tutta la comunità di non cittadine/i in una condizione di inferiorità legale, di terrore, ricattabilità e sfruttabilità.

Il decreto Minniti-Orlando prevede l’attivazione di un CPR per regione e addirittura, in Friuli-Venezia Giulia, il presidente Fedriga ha dichiarato di volerne aprire uno per provincia. Con il decreto sicurezza Salvini, per perdere il permesso di soggiorno, ed essere quindi potenzialmente internate/i, basta essere dichiarate/i pericolose/i socialmente o essere condannate/i in primo grado per oltraggio a pubblico ufficiale. Inoltre, nelle zone di frontiera, come la nostra, sarà possibile internare anche solo per identificare la provenienza della persona sprovvista di documenti e/o richiedente asilo, senza la necessaria presenza di un provvedimento di espulsione attivo.

In questi mesi sono iniziati trasferimenti di persone dal CARA di Gradisca e stanno per cominciare i lavori per adibirlo a CPR; il contratto con la cooperativa Minerva – nota per i maltrattamenti delle persone costrette nel CARA – scadrà a fine 2018. Il cantiere – che vale quasi 3 milioni di euro – è stato affidato al genio militare, saltando la gara d’appalto, come si trattasse di un’emergenza.

Il silenzio sull’apertura di un CPR è inevitabilmente complicità con la sua esistenza: significa aver interiorizzato la divisione razziale, cioè razzista, imposta dall’attuale discorso dominante; significa accettare che delle persone vengano internate, perché comunque non capiterà a noi.

Noi ci opponiamo e ci opporremo totalmente alla creazione e all’apertura di un CPR e sappiamo che unendoci, organizzandoci e coordinandoci tra tutte/i le antirazziste/i e le/i solidali della regione possiamo impedirne l’apertura.

Per bloccare l’apertura di un CPR ci vogliono molte teste, molte mani e poche deleghe del lavoro a qualcun’altra/o.

Sabato 20 ottobre diamo appuntamento per un primo CORTEO DI OPPOSIZIONE ALLA COSTRUZIONE DEL CPR. Per un momento di mobilitazione, di confronto e di organizzazione fra le varie individualità e gruppi di tutta la regione.

NO CPR E NO FRONTIERE NE’ IN FVG NE’ ALTROVE!

Assemblea NO CPR e no frontiere

nofrontierefvg.noblogs.org

Venerdì 21 settembre 2018

#2. Come già accennato, il numero di migranti che ogni sera arriva allo squat per un pasto caldo dello chef Bashir tende a fluttuare tra le 70 e le 120 persone. Le variabili: il flusso in entrata e in uscita da Belgrado e la direzione di questo flusso; la praticabilità della rotta bosniaca che entra in Croazia dopo Velika Kladuša; e naturalmente l’operatività della polizie serba e croata. Questo perché, a cadenza quasi giornaliera, dopo cena decine di ragazzi preparano i propri beni (soprattutto le scarpe), e si avvicinano ai treni e ai camion che fermano a Šid e sono diretti verso i Paesi dell’Europa centrale. Senza che conducenti o capitreno se ne accorgano i ragazzi – tutti o quasi tra i 15 e i 23 anni, ma abbiamo anche un dodicenne – saltano sui mezzi e cercano di nascondersi come possono. Scenderanno poi quando il mezzo avrà attraversato almeno una frontiera, ma in ogni caso quelli che sono respinti vengono colti generalmente in cinque momenti distinti. Questa struttura in livelli, la difficoltà ascendente che separa l’uno dall’altro, il set di abilità uniche richieste per ognuno, l’incidenza di una certa componente di fortuna, la presenza di checkpoint (gli squat e i campi) da cui è sempre possibile ripartire, le conseguenze progressivamente più incisive della cattura e la giovane età dei migranti credo siano le ragioni per cui questo modo di spostarsi sia universalmente noto come the Game. I momenti in cui è possibile perdere, vale a dire essere presi e ricondotti al punto di partenza, sono i seguenti:
1) Immediatamente saliti sul mezzo di trasporto.
Oltre ad una certa velocità di corsa è cruciale avere bene in mente gli orari di partenza dei treni e dei camion sufficientemente grandi da offrire un buon nascondiglio. Se non si è abbastanza lesti lo chauffeur scende e scarica i partecipanti; i ragazzi però sono ancora freschi e, anche a fronte di un’elevata aggressività del conducente, se la cavano al massimo con un calcio in culo. Le conseguenze della squalifica quindi sono abbastanza modeste e durano pochissimo, vale a dire fino al successivo mezzo giocabile.
2) A Šid dalla municipale.
I migranti vengono raccolti e scortati verso la jungle dove molti di loro vanno a dormire. Inaspettatamente le conseguenze della squalifica si fanno più leggere sul piano fisico, però se reiterata pesa molto sul morale del giocatore. Va detto che, se esiste un’abilità assolutamente necessaria e che deve essere impiegata in ogni tratta del viaggio, questa abilità è la caparbietà, da cui si genera la pazienza di aspettare il giusto mezzo giocabile, la tenacia per camminare quando fanno male i piedi, eccetera. Comunque ogni migrante è ben consapevole che, a questo punto, le sue possibilità di arrivare in Croazia si andavano facendosi più concrete. Forse i meno scafati iniziavano a pensare alla Slovenia, o addirittura all’Italia e alla Germania. La causa principale della squalifica qua dipende direttamente dal tipo di Game che era in corso. Se si tratta di un Big Game, vale a dire un Game molto partecipato e che generalmente si svolge di notte, la squalifica insorge per scarsa fortuna: un po’ passano, moltissimi sono presi, cosicché tra noi volontari serpeggia la quasi-certezza che questi Big Game siano roba da beoti. In verità qualche sera fa, quando abbiamo incrociato sulla strada verso casa almeno trenta-quaranta partecipanti seguiti da una macchina della polizia che procedeva a passo d’uomo, so di per certo che due cugini con cui avevo chiacchierato qualche ora prima sono riusciti a passare, e con loro almeno altri dieci. Spessissimo però succede che in molti si muovano preventivamente o bazzichino con eccessiva convinzione nei dintorni della stazione ferroviaria o del polo industriale da dove partono i camion, mettendo in allarme la polizia che pare sensibilissima a questo tipo di fermento. É un pochino come nei 100 metri piani, una falsa partenza di uno o di pochi nuoce a tutti quelli che sono in gara.
Se invece si tratta di un Game che raccoglie poche unità e si svolge a qualsiasi orario del giorno, venire beccati dalla muni

cipale di Šid diventa veramente questione di scarsa scaltrezza o estrema sfortuna, perché generalmente chi partecipa a questi Game piccoli viene squalificato al livello successivo.
3) Ovvero al posto di frontiera, in collaborazione tra la polizia croata e quella serba. Chi ha superato i primi due livelli, nettamente i più agevoli, deve ancora passare attraverso la tagliola dello scanner nel posto di blocco dalla parte croata del confine che si trova a una manciata di chilometri dal centro di Šid. Sicuramente più della metà dei partecipanti si ferma a questo punto. Credo che questi scanner siano delle macchine a raggi X attraverso cui passano i camion, ma non sono sempre in funzione e così passare il confine, se si è fortunati, è solo una questione di qualità del cantuccio che ci si è scelti. Se invece sono in funzione, a giudicare da quanti rimandano indietro, sono degli strumenti abbastanza potenti. La polizia croata avvisa quella serba che prende in carico i ragazzi, li monta su una volante o su un furgoncino, li porta alla stazione di polizia di Šid per impronte digitali e una serie di “second time jail”, che non ha la minima pretesa di verità e in effetti non spaventa nessuno.
4) In territorio croato.
Lo scarto nel tenore delle conseguenze della squalifica balza nettissimamente in avanti. In prima istanza dal punto di vista giuridico, perché la Croazia pratica sistematicamente pushback di questi ragazzi. Questa mattina, in un attimo di pausa, ho trovato una definizione di pushback che mi è parsa molto precisa, e quindi la copincollo:
‘Pushback’ is the term used to describe the practice by authorities of preventing people from seeking protection on their territory by forcibly returning them to another country. By pushing back those seeking safety and dignity over a border, states abdicate responsibility for examining their individual cases. Pushbacks encompass the legal concept of collective expulsion, which is prohibited in Article 4 of Protocol No 4 to the European Convention on Human Rights (ECHR). This refers to the ‘prohibition of collective expulsion of aliens’, which occurs when a group is compelled to leave a country without reasonable and objective examination of individual cases.
Pushbacks violate international and EU law because they undermine people’s right to seek asylum, deny people of the right to due process before a decision to expel them is taken, and may eventually risk sending refugees and others in need of international protection back into danger. (fonte: Oxfam)
In seconda istanza perché la polizia croata si lascia andare molto, molto, molto spesso a insulti, percosse e minacce armate anche su minori non accompagnati, donne e bambini. Spesso sottraggono soldi e telefono cellulare. Chiunque venga catturato è immediatamente deportato in Serbia e, tra quelli che poi vengono a mangiare allo squat, una buona percentuale presenta contusioni, ferite o escoriazioni o lamenta dolori in varie parti del corpo. La nostra doctor ha sempre un gran daffare. Una discriminante piuttosto importante è il luogo in cui si viene arrestati. Se succede nelle vicinanze della frontiera serbo-croata alle manganellate, ai calci, agli insulti segue un rapido scarico in territorio extra-UE. Con la vicinanza della Mitteleuropa aumentano i disagi: le percosse ne guadagnano in intensità e inizia un viaggio di molte ore verso la Serbia.
Negli ultimi giorni ho parlato con diversi ragazzi che mi hanno raccontato di traduzioni sportive. Tutti i resoconti mi sono parsi non solo coerenti tra loro, ma addirittura complementari nella descrizione di massima delle abitudini delle polizia croata, e allora sono riuscito a strutturare una specie di normotipo del poliziotto croato procedendo quasi per esclusiva addizione di nuovi elementi su quelli già in mio possesso. Chiaramente questa figura, che per quanto precisa esclude i casi estremi di virtù e vizio, l’ho costruita attraverso le storie di testimoni diretti ma non disinteressati, così devo sforzarmi ogni volta di verificare minuziosamente l’attendibilità di ognuno di loro. Altro perp
etuo appunto di cui devo assolutamente ricordarmi mentre scrivo è l’obbligo assoluto a non esprimere giudizi morali ma unicamente i fattori oggettivi che mi hanno permesso di arrivare a questi giudizi. A volte divento retorico quando mi sforzo di nascondere questi giudizi ma non è mai difficile capire quando sta succedendo o sta per succedere.
Quello che un migrante che viene tratto in arresto diciamo nella campagna zagabrese può aspettarsi è: un brevissimo inseguimento a cui seguono colpi di arma da fuoco o in alternativa un Alt! sotto la minaccia sempre delle armi; una serie infinita di insulti in serbocroato (il significato di “pičku matri” ormai lo sanno anche i muri) che accompagnano le percosse a questo punto assai poco necessarie a infilare i fuggitivi dentro una camionetta in stile Fiat Ducato; certamente la confisca definitiva di sacchi a pelo, coperte e vestiti; possibilmente anche del cellulare e del denaro; un viaggio che richiede 6-7 ore e in cui non solo nessuno viene rifocillato né viene offerta acqua, ma durante il quale le condizioni all’interno del retro del Ducato sono di assoluto sovraffollamento; nella camionetta è buio. Naturalmente non mi viene proprio facile immaginare quanto prossimi ci si deve sentire a dei capi d’allevamento in piedi, feriti, al buio, affamati e disidratati, in un locale ingombro di gente che nei giorni precedenti ha dormito all’addiaccio nelle campagne e nelle foreste croate e ora probabilmente si lamenta, qualcuno ogni tanto batte i pugni sulla lamiera al di là della quale stanno le guardie, qualcun altro ha dei bisogni che non può controllare, c’è gente che vomita e in pochi svengono.
Quello che mi aspettavo da queste persone è che dimostrassero segni di acuto nervosismo o accessi d’ira. Invece arrivano così, e ti raccontano ste robe come se fossero successe al cugino di chissà chi che poi forse nemmeno esiste ma bisogna comportarsi come se ci importasse qualcosa. Scrivo questo perché inizialmente ho faticato a credere a queste storie, raccontate con eccessivo distacco, tra un discorso e l’altro, giusto per offrire una piccola esperienza personale o non far morire la conversazione. Ora invece penso che sia tutto coerente con la non eccezionalità di queste storie tutte simili, e che mi ha fatto scartare l’ipotesi delle mele marce che stanno dappertutto e quindi anche nella polizia in favore della certezza che non esistano organi effettivamente in grado di preparare i poliziotti in tema di diritti umani e affini: il problema è certamente generale.
5) In Slovenia.
Come già in Croazia le abilità più utili sono saper camminare attraverso i boschi senza farsi vedere, possedere coperta e sacco a pelo per le notti, resistere alla tentazione di avvicinarsi ai centri abitati per recuperare qualcosa. La polizia slovena è generalmente più morbida di quella croata, quindi si evitano minacce e percosse. Il problema dei pushback invece rimane: nonostante un controllo a maglie più larghe, chi viene colto è portato al confine e lì consegnato alla polizia croata, che farà lo stesso con quella serba e di nuovo allo squat. Abbiamo gente che parte per il Game e torna dopo 4-5 giorni. Il viaggio per e dalla Slovenia è abbastanza lungo e già di per sé debilitante. I ragazzi non ritentano di andare al Game per almeno almeno un giorno o due, mentre i meno granitici tendono ad aspettare anche una settimana o due. Il Game oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.

Abbiamo bisogno di coperte, sacchi a pelo, scarpe numero 42.

 

Venerdì 14 settembre 2018

#1. Ieri sono arrivato a Šid e ho immediatamente iniziato. Non sapevo dove fosse l’appartamento dei volontari e quindi mi sono fatto accompagnare, da un ragazzo afghano che ho incrociato in stazione, direttamente allo squat. Si tratta di un edificio a 2 piani abbandonato da lungo tempo. Molte pareti sono solo mucchi di calcinacci; porte e finestre o intonaco sono inesistenti. La calce grigia dei muri che resistono, qua e là ricoperta di scritte a pennello, è più o meno tutto quello che si vede. Solo dal pavimento, in cui alcune piccole zone del rivestimento superficiale ancora si intravedono, e dal poco che si può capire della planimetria, si può azzardare l’ipotesi che l’edificio fosse un tempo una scuola o un qualche tipo di di ufficio pubblico. Ieri, quando sono arrivato, ho conosciuto due volontari di No Name Kitchen nel mezzo del turno docce: da mezzogiorno alle cinque, si porta l’acqua allo squat, si aziona una pompa, si montano due tende per un minimo di privacy e così, all’interno di un locale esterno a cui manca la parete che dà sul giardino e dove l’acqua delle docce dei giorni precedenti (si fanno due turni a settimana) ristagna in una pozza maleodorante, le persone possono lavarsi. Nello squat, di questi tempi, vanno e vengono giornalmente 70-80-90-100 persone. Un po’ dipende dalla polizia di frontiera croata, un po’ da quello che succede a Belgrado e alla rotta bosniaca. Gli arrivi, come ho potuto notare qualche ora più tardi, sono costanti. Delle partenze sappiamo poco, oltre a qualcuno che promette “tonight i go to the Game” – che significa infilarsi sotto i camion più grandi per cercare di passare sotto il naso dei doganieri serbi e croati del posto di blocco. È anche difficile capire quando manca qualcuno. Ovviamente non facciamo appelli, e con 70+ persone diventa più facile rendersi conto delle facce nuove che non di quelle che mancano.

Venerdì 14 settembre 2018