Nessun giustizia per Vakhtang finché le mura del CPR non crolleranno [Iniziative]

Presentazione dell’iniziativa e discussione

Casa del Popolo di Gorizia (piazza Tommaseo 7), venerdì 28 febbraio, ore 18:30

Presenza solidale con i detenuti del CPR in rivolta e con i/le solidali colpitx dalla repressione

Tribunale di Gorizia (via Nazario Sauro 1, di fronte al giudice di pace), martedì 4 marzo, ore 10:30


L’allora Cpt di Gradisca apre nel 2006 in conseguenza della legge “Turco-Napolitano” voluta dal centrosinistra. La morte di Majid El-Khodra, caduto dal tetto durante una rivolta, porta alla sua chiusura nel 2013. Anni dopo, nel 2019, il campo di deportazione per persone senza documenti riapre come CPR, sotto la gestione della coop Ekene di Battaglia Terme (PD). Cambia il nome, ma non la sostanza: apice fisico del razzismo di Stato e delle sue imprese coloniali, come tutte le carceri è luogo di tortura e annientamento al suo interno, dispositivo di controllo e minaccia tramite il ricatto che esercita sui “liberi”, all’esterno.

Dal 2019 a Gradisca si susseguono le vittime della macchina espulsiva: quella di Vakhtang Enukidze dopo un pestaggio da parte delle guardie (gennaio 2020), quella per overdose di Orgest Turia (luglio 2020) e quelle per suicidio di Anani Ezzedine e Arshad Jahangir, ma il lager democratico non ha mai smesso di essere operativo.

Per la morte di Vakhtang Enukidze è in corso oggi un processo che vede giudicati per omicidio colposo Simone Borile, allora capo della cooperativa Ekene, e l’allora centralinista del centro, Roberto Maria La Rosa. Spacciati dai media come “mele marce”, si tratta in realtà dei piccoli ingranaggi della macchina di oppressione e sfruttamento che sulla vita degli ultimi e dei marginali genera lauti profitti, consenso elettorale e merce di scambio per accordi politici, economici e sindacali.

Il tribunale da un lato finge di elargire la “giusta” giustizia di Stato a due suoi complici, dall’altro è il luogo in cui si decide durante udienze-farsa dell’internamento delle persone senza-documenti rastrellate in tutto il nord-Italia. La figura a questo deputata è il giudice di pace – a Gorizia, Giuseppe La Licata – assieme ai suoi collaboratori.

Il processo contro due aguzzini di Ekene, a prescindere del suo esito, non servirà se non a ripulire e oliare la macchina: le coop continueranno a fare affari, il CPR a torturare.

I Cpr, quando sono stati chiusi, lo sono stati sotto il fuoco e i colpi delle rivolte dei prigionieri al loro interno. A loro va tutta la nostra solidarietà e supporto. Finchè di quelle mura non resteranno che macerie.

Per tutto questo vi invitiamo a un doppio appuntamento:

·  Presentazione e discussione – Casa del Popolo di Gorizia (piazza Tommaseo 7), venerdì 28 febbraio, ore 18:30

·  Presenza solidale con i detenuti del CPR in rivolta e con i/le solidali colpitx dalla repressione – Tribunale di Gorizia (via Nazario Sauro 1, di fronte al giudice di pace), martedì 4 marzo, ore 10:30

Assemblea No CPR FVG

Assemblea permanente contro carcere e repressione del Friuli e di Trieste


VERSIONE ESTESA

Storia del CPR di gradisca: oppressione razziale, morti di stato

Il Cpr di Gradisca d’Isonzo apre nel 2006, sotto la gestione della cooperativa goriziana Minerva, nel sito dell’ex-caserma “Polonio”. Assieme ad altre prigioni per senza-documenti volute dall’allora governo di centrosinistra con la legge 40/1998 “Turco-Napolitano”, rappresenta l’apice del razzismo di stato, il complesso sistema costruito sulla detenzione amministrativa, la deportazione, il perenne stato di oppressione razziale a cui sono sottoposte le persone lungo le linee della razza, del colore, della classe.

Nel 2013 scoppia una grande rivolta repressa brutalmente dalle guardie, durante la quale Majid El-Khodra cade dal tetto, morendo dopo otto mesi di coma. L’allora CIE viene dunque chiuso. Nel dicembre del 2019 riapre con la denominazione di CPR – altro decreto del centrosinistra, il “Minniti – Orlando” del 2017 – questa volta sotto la gestione della cooperativa Ekene di Battaglia Terme (PD).

Poche settimane dopo la riapertura, tre detenuti riescono a scappare dal centro. In quei giorni sono numerosi i casi di autolesionismo (incluso un tentato suicidio), dovuti alle dure condizioni di detenzione al suo interno. Il 18 gennaio 2020, Vakhtang Enukidze muore pochi giorni dopo aver subito un pestaggio all’interno del CPR da parte delle guardie in assetto antisommossa. Nel luglio dello stesso anno, Orgest Turia muore per overdose di psicofarmaci. Nel dicembre 2021 si toglie la vita nel campo Anani Ezzedine, come farà anche Arshad Jahangir nell’agosto 2022.

Giustizia per Vakhtang

Lo stato normalmente non si autoprocessa, e anche quando finge di farlo, lo fa col fine di autoassolversi, preferendo semmai mettere in piedi delle farse tribunalizie al termine delle quali arrivare a condannare alcune “mele marce”, che poi tanto marce non sono, visto che esso continua a beneficiare volentieri dei loro servigi.

Non ci riferiamo in questo caso solamente alle ormai quasi quotidiane esecuzioni a sangue freddo da parte dei servitori dello stato in divisa, ma anche ai ricchi affari che le Prefetture – quella goriziana in prima linea – continuano a fare con gli aguzzini senza divisa che gestiscono i Cpr, le cosiddette coop “dell’accoglienza” e tante piccole e medie imprese del territorio coinvolte nelle sua esistenza. La prefettura goriziana foraggia infatti la coop Ekene di Battaglia Terme (Padova) perchè continui a “gestire” il Cpr di Gradisca d’Isonzo, sebbene responsabile della morte di almeno cinque persone, quattro nel campo gradiscano dal 2020 ad oggi ed una nel campo di Conetta (Venezia), dove nel 2017 morì Sandrine Bakayoko.

Per la morte di Vakhtang Enukidze, ucciso nel Cpr di Gradisca da un pestaggio di un gruppo di anonime guardie nel gennaio 2020, è in corso oggi un processo che vede giudicati per omicidio colposo Simone Borile, allora capo di Ekene, e l’allora centralinista del centro, Roberto Maria La Rosa. Questi che si vorrebbero additare come unici responsabili non sono “mele marce” di un sistema riformabile perchè ancora “inefficiente e costoso”, sono invece due piccoli ingranaggi della vasta macchina di ricatto e sfruttamento su base razziale, che sulla vita dei più marginali e ricattabili genera lauti profitti, consenso elettorale e merce di scambio per accordi politici, economici e sindacali. Il processo in corso, a prescindere da quale sarà il suo esito, serve proprio a far sì che la macchina continui a girare a pieno regime una volta “ripulita” e nuovamente oliata: le coop continuano a fare affari, le guardie e il CPR a torturare. Il CPR continua ad esercitare la propria funzione di ricatto e di terrore nei confronti di tutte le persone straniere.

Non solo, questa vasta macchina che è il dominio non tollera che qualcuna o qualcuno esca dall’automatismo psicologico che porta alla “normale” sopportazione dell’esistenza della tortura, non tollera che qualcuno sia ancora in grado di sentire il dato intuitivo che accanirsi su persone inermi è disturbante. Quindi colpisce nel silenzio generalizzato con procedimenti giudiziari anche quei solidali che con determinazione si sono mobilitati negli ultimi mesi.

Il sistema della detenzione amministrativa

Il tribunale non è solo il luogo in cui nessuna vera “giustizia” potrà essere stabilita – banalmente, il sistema Cpr in cui è morto Vakhtang continuerà ad esistere a prescindere dalla sentenza – ma è anche il luogo in cui si decide durante udienze-farsa dell’internamento delle persone senza-documenti, fungendo da cinghia di trasmissione per gli ingressi nel Cpr di tutte le persone che la polizia rastrella in tutto il nord-Italia. La figura a questo deputata è il giudice di pace – a Gorizia, Giuseppe La Licata – assieme ai suoi collaboratori.

La detenzione amministrativa, come nei regimi coloniali (su tutti l’entità sionista israeliana), è la forma “eccezionale” di trattenimento e segregazione che corona il sistema di sfruttamento e divisione razziale: uno strumento che diventa sempre più la norma nella gestione dei cosiddetti flussi migratori e più in generale nel controllo della popolazione straniera. Basti guardare all’estensione del trattenimento amministrativo: dal nuovo patto europeo sulle migrazioni e l’asilo, passando per l’accordo Italia-Albania. Agli hotspot, dove vengono trattenuti per l’identificazione i migranti ai nuovi centri di detenzione temporanei per le procedure d’asilo ed espulsione accelerate nei luoghi di sbarco – denominati Ctra – per quei paesi di provenienza ritenuti arbitrariamente sicuri. Ma anche per i cosiddetti luoghi idonei, individuati nelle camere di sicurezza delle questure o delle stazioni di polizia. Per ragioni di sicurezza, identificazione e deportazione si diffondono sempre più capillarmente come nuove forme di restrizione della libertà, applicate senza alcun tipo di garanzia legale, in primis alle persone migranti e razzializzate.

Le rivolte e la voce dei prigionieri

Le rivolte e le ribellioni, grandi e piccole, scandiscono da sempre l’esistenza del Cpr di Gradisca. Di queste sappiamo, più che dai giornali (sempre a fianco della narrazione securitaria del potere), per le voci – e le immagini – che riescono ad uscire e a diffondersi all’esterno del campo. Per questo è fondamentale mantenere i contatti con l’interno, per una comunicazione solidale che dia voce a chi viene schiacciato dalla violenza di stato.

L’ultima ondata di rivolte è iniziata lo scorso capodanno, quando alcuni prigionieri sono saliti sul tetto in segno di protesta. Qualche settimana dopo sono scoppiati degli scontri tra detenuti e guardie che si sono protratti per due giorni, raggiungendo un apice quando diversi fuochi sono stati accesi durante la notte nelle aree delle celle. La risposta della polizia è stata manganelli, lacrimogeni e getti d’acqua contro chi si era ribellato e 35 detenuti sono stati poi trasferiti in carcere o deportati in Tunisia e Marocco. Ma le rivolte non hanno portato soltanto repressione: un’intera sezione del CPR, l’area rossa, è stata resa “inagibile” e perciò chiusa temporaneamente. Così, come già successe al Cpr di Torino nel 2023, il fuoco dei ribelli è riuscito a sottrare, ancora una volta, preziosi spazi alla macchina razzista e classista delle deportazioni.

Sotto le mura del lager CPR di Gradisca d’Isonzo

Era da un po’ che non si vedeva una presenza così di fronte al CPR di Gradisca d’Isonzo. Sabato 8 febbraio, decine di persone solidali si sono riunite di fronte ad uno dei tanti lager di Stato. Chi ancora crede si tratti di un’iperbole, vada a cercare informazioni sulle condizioni in cui vivono — e muoiono — al suo interno le persone rinchiuse. Prigionieri che sono ostaggi di una guerra contro marginali, devianti, irrecuperabili all’ordine imposto, individui considerati non integrabili nella catene della produzione. Persone razzializzate secondo i criteri coloniali dell’Occidente, destinate alla deportazione dalle questure del territorio della regione e da tutto il nord Italia, dopo fermi, retate, controlli di documenti, carceri.
Questa spinta solidale ha senza dubbio avuto a che fare con le recenti rivolte [link]: risulta infatti difficile non supportare anche in modo minimo, come abbiamo fatto sabato — chi prova a ribellarsi a una situazione di violenta oppressione, organizzandosi con i propri compagni di prigionia, battendosi con i pochi mezzi a disposizione, con il proprio corpo e le affinità e alleanze che si creano sul momento.
Di fronte a quelle mura, e al massiccio schieramento di polizia, abbiamo tentato di farci sentire da dentro, attraverso interventi e musica. E abbiamo ottenuto delle risposte: grida di libertà attraverso una comunicazione minima, ma che crediamo fondamentale per dare forza a chi resiste.
«I CPR si chiudono col fuoco» non è uno slogan, non è retorica, ma una realtà palpabile. Così è successo a Torino nel 2023 e a Gradisca nel 2013, e così in queste settimane è stato reso inagibile — parzialmente — quello di Gradisca. Non possiamo che continuare a supportare e dare voce a chi è dentro, a chi tenta la fuga, a chi viene deportato.
Segnaliamo infine – come annotazione certamente marginale rispetto alla condizione dei prigionieri, ma significativa dei tentativi di isolamento a cui è sottoposto il campo gradiscano, le identificazioni di massa e le perquisizioni avvenute verso le tante persone accorse al presidio, prima ancora di poterlo raggiungere. La solidarietà è un arma che qualcuno vorrebbe disarmare, non ci riuscirà: la lotta e la mobilitazione continueranno fino a quando le mura del CPR non crolleranno!

Aggiornamenti dopo le rivolte del CPR di Gradisca d’Isonzo [video]

A dieci giorni della rivolte del CPR, la situazione a Gradisca d’Isonzo sembra ritornata alla calma: sappiamo che si tratta di una tregua apparente, la storia del CPR è da sempre scandita dalle rivolte, le proteste, le evasioni.

Dopo le giornate di battaglia, sono state deportate diverse persone, soprattutto in direzione della Tunisia; altre sono state trasferite in altri CPR, come quello di Trapani-Milo e del Corelli a Milano; altre ancora sono state arrestate e portate nelle carceri.

L’area rossa è stata temporaneamente chiusa per diversi giorni, resa inagibile (“gravemente compromessa” nel linguaggio questurino) dalla forza delle rivolte. Molti sono stati spostati nelle altre due area ancora aperte, in particolare quella blu, che risultava particolarmente sovraffollata. Qualche giorno dopo, a seguito di alcune riparazioni, è stata in parte riaperta anche l’area rossa.

I nuovi ingressi sono continuati, segno anche che la macchina delle deportazioni funziona imperterrita. Resta la potenza di quelle giornate, i pezzi di CPR divelti, posti e capienza ridotti e sottratti alla detenzione amministrativa, ai dispositivi materiali del razzismo di stato.

Pubblichiamo un video che racconta quelle giornate, che mostrano il coraggio e la determinazione dei prigionieri in rivolta. Rilanciamo anche l’appuntamento di sabato 8 febbraio alle ore 15, sotto le mura del CPR di Gradisca, per portare una volta di piu’ solidarietà e complicità con i reclusi!

 

Solidarietà ai rivoltosi di Gradisca: presidio pubblico, 8 febbraio 2025

Il 21 gennaio, nel CPR di Gradisca d’Isonzo, la paura e l’isolamento hanno cambiato campo. Dopo due giorni di scontri, diversi fuochi sono stati accesi nella notte. Com’era già successo durante la notte di capodanno, alcuni prigionieri sono saliti sul tetto in segno di protesta. Sono così iniziati degli scontri all’interno del Cpr quasi ininterrotti.

La risposta della polizia è stata manganelli, lacrimogeni e getti d’acqua contro chi si è ribellato alle torture e violenze. Le rivolte hanno portato alla chiusura dell’area rossa e 35 detenuti sono stati deportati in Tunisia e Marocco o trasferiti in carcere.

Torniamo ancora una volta sotto a quel muro che nasconde un lager etnico legalizzato, torniamo per portare solidarietà e rompere silenzio e isolamento verso chi continua a lottare per la libertà e non piega la testa verso uno Stato razzista che vuole l’omogeneità e la pacificazione sociale.

Perché i CPR si chiudono con il fuoco non sia solo uno slogan.
SABATO 8 FEBBRAIO ORE 15:30 DAVANTI AL CARA

FREDOOM-HURRIYA-LIBERTÀ
Assemblea no cpr

Di rivolte, scioperi della fame, tentativi di evasione e fughe. La normalità del campo di Gradisca

La lotta dei prigionieri nel campo per senza-documenti di Gradisca continua senza soste. Nelle ultime settimane gli episodi di rivolte, ribellioni e proteste sono stati diversi. Dopo la caduta da un tetto di un giovane prigioniero tunisino nella notte del 10 gennaio (con gravi lesioni alle gambe) e un nuovo incidente cinque giorni dopo, giovedì 16 gennaio si e’ scatenata una protesta incendiaria nella zona rossa. Il 21 gennaio, dopo due giorni di scontri, diversi fuochi sono stati accesi nella notte: la polizia è entrata nelle celle, caricando i detenuti e sequestrandogli i telefoni, che sono stati riconsegnati solo più tardi. Com’era già successo durante la notte di capodanno, alcuni prigionieri sono saliti sul tetto in segno di protesta. Sono così iniziati degli scontri all’interno del Cpr quasi ininterrotti. Martedì l’agitazione è cresciuta ancora: uno sciopero della fame collettivo è sfociato in una nuova rivolta con fuoco nell’area rossa. La polizia è intervenuta con lanci di lacrimogeni e getti d’acqua, com’è successo di nuovo durante la notte, quando alcuni detenuti avrebbero tentato la fuga, tra le nubi di fumo del campo.

Le motivazioni delle rivolte sono strutturali, sia per le condizioni di detenzione nel centro come per la sua stessa natura, di lager di tortura. Si susseguono scioperi della fame per la pessima qualità del cibo e la somministrazione di psicofarmaci assieme ad esso. Cio’ avviene con la complicità e necessaria collaborazione della cooperativa Ekene, che continua a gestire il centro in proroga, in attesa della nuova assegnazione in seguito alla gara d’appalto per la sua gestione indetta nel giugno del 2024 e chiusasi a settembre, nel corso della quale sono state presentate quattro offerte.

Spesso le guardie in antisommossa entrano nelle gabbie esterne alle camerate manganellando chiunque si trovi a tiro, ma questo non impedisce ai prigionieri di reagire, continuando a minare e sabotare pezzo per pezzo la tenuta del campo, che sembra al momento contenere molti meno prigionieri di quelli riportati dalla stampa locale e nei comunicati delle stesse guardie.

Se non possiamo che essere contenti che i cosiddetti costi “materiali e sociali” di cui si lamentano politicanti locali e guardie non facciano che aumentare rivolta dopo rivolta — attualmente l’operatività della struttura sarebbe già “seriamente compromessa” —, ribadiamo che gli unici “costi umani” sono quelli dei prigionieri rinchiusi in questi luoghi di tortura, umiliazione e morte, non certo quelli degli assassini con o senza divisa che ne permettono l’esistenza e il funzionamento.

Aggiornamento: dopo due giorni di rivolte, la cosiddetta area rossa del campo – collocata nel mezzo dell’ex-caserma, tra le aree verde e blu – è stata completamente devastata e nessuno si trova più al suo interno. Otto prigionieri sono stati trasferiti nell’area blu, mentre 35 di loro sono stati deportati in Tunisia e Marocco o trasferiti in carcere.
Sono poi avvenute perquisizioni con l’impiego di squadre antisommossa nelle camerate.

FUOCO AI CPR E A TUTTE LE GALERE
TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

Contro il razzismo di stato: uno sguardo sulla detenzione amministrativa

Incontro e benefit per le persone recluse nel CPR di Gradisca

17 gennaio 2024 – ore 18

Via Tarabocchia 3, Trieste

La macchina del razzismo istituzionale, in Italia come in Europa, ha potenziato una strumento particolare, quello della detenzione amministrativa. Si tratta di una forma “eccezionale” di trattenimento e segregazione, già ampiamente utilizzato storicamente durante il colonialismo europeo in Africa, in Palestina fin dai tempi del mandato britannico e dal 1948 dall’entità coloniale sionista, per la repressione dei dissidenti e della resistenza, ma anche nel resto del territorio europeo, americano o australiano. Uno strumento che diventa sempre più la norma nella gestione dei cosiddetti flussi migratori e in più generale nel controllo della popolazione straniera.

In Italia trova espressione oggi nei CPR – prima CPT e CIE – cioè nei centri di tortura e deportazione per le persone senza documenti. Ma negli ultimi anni, dalle misure sull’immigrazione (come il “decreto Cutro” o i vari “pacchetti sicurezza”) al nuovo patto europeo sulle migrazioni e l’asilo, passando per l’accordo Italia-Albania, questo strumento ha trovato nuovi spazi e tempi: è il caso degli hotspot, dove vengono trattenuti per l’identificazione i migranti; dei nuovi centri di detenzione temporanei per le procedure d’asilo ed espulsione accelerate nei luoghi di sbarco – denominati Ctra – per quei paesi di provenienza ritenuti arbitrariamente sicuri; ma anche dei cosiddetti luoghi idonei, individuati nelle camere di sicurezza delle questure o delle stazioni di polizia. Per ragioni di sicurezza, identificazione e deportazione si diffondono sempre più capillarmente nuove forme di restrizione della libertà, applicate senza alcun tipo di garanzia legale, in primis alle persone migranti e razzializzate.

Non si tratta di misure isolate, ma di un complesso di dispositivi di segregazione e controllo che, in un contesto di razzismo sistemico, mirano a ricattare e terrorizzare chi non ha i documenti giusti, e così rafforzare, tra gli altri, i meccanismi di selezione e sfruttamento della forza lavoro immigrata. Vorremmo provare ad approfondire questi temi in una serata di confronto e informazione, in una prospettiva di solidarietà e complicità con le persone che si trovano incagliate in queste strutture (raramente sottomesse, come dimostrano le ribellioni nei CPR e le lotte dei braccianti).

La serata sarà anche un benefit per il sostegno alle lotte e alla solidarietà con quanti si trovano reclusi nelle galere etniche, tra cui il CPR di Gradisca d’Isonzo, a pochi chilometri da Trieste.

Ancora da Gradisca

Dopo l’ultima rivolta, che alla fine di maggio aveva distrutto l’area blu del Cpr di  Gradisca, il 10 luglio scorso è stata la stessa area a bruciare ancora: diverse  camerate sono state nuovamente distrutte e alcuni prigionieri sono riusciti a raggiungere il tetto.
Le rivolte continuano a susseguirsi senza sosta – l’ultima nella cosidetta “area verde” la sera del 4 agosto – minando sempre di più la struttura della galera amministrativa goriziana e costringendo persino i sindacati degli sbirri a chiederne la temporanea chiusura, naturalmente per consentirne il ripristino.

Nel frattempo, in seguito ai saluti portati sotto le mura del cpr negli ultimi mesi, sono al momento stati notificati 10 fogli di via da Gradisca (variabilmente dai 6 mesi fino ai 2 anni), motivati da decine di denunce pervenute solo successivamente a carico di altrettanti/e solidali.

Mentre continue rivolte stanno rendendo sempre più inutilizzabili molti dei cpr della penisola, intaccando così il sistema della espulsioni della cui funzione di ricatto essi costituiscono l’emblema fisico, il “pacchetto sicurezza” in arrivo – che potrebbe essere approvato entro la fine dell’anno – introduce nuovi reati e ne aggrava altri nel tentativo di mettere un argine a una situazione sempre meno gestibile anche per la tenuta della macchina di selezione-sfruttamento-ricatto-reclusione-espulsione.
E’ il caso della condanna alla reclusione da 1 a 6 anni per ogni prigioniero/a che all’interno di un cpr o altra cosiddetta struttura di accoglienza, “mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità, posti in essere da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena prevista va da 1 a 4 anni, mentre è previsto inoltre un aggravamento della pena se il fatto è commesso con l’uso di armi o se nella rivolta qualcuno/a rimane ucciso o riporta lesioni gravi o gravissime.
E’ evidente che per il legislatore risulti del tutto indifferente da che parte provenga l’azione in grado di causare lesioni o portare alla morte e, di conseguenza, chi ne sia la vittima.
Siccome di norma sono gli sbirri a picchiare ed ammazzare i reclusi/e dentro carceri e campi della reclusione “amministrativa” – purtroppo non succede spesso il contrario – durante ma anche in assenza di rivolte, è facile immaginare quale genere di mano libera questa postilla possa garantire alle future azioni di repressione delle rivolte e alle violenze del tutto sommarie all’interno dei campi da parte delle guardie.
Dal momento che l’agibilità di chi agisce coperto da una divisa deve diventare sempre più totale (dentro carceri e cpr come anche all’esterno), l’aggravante summenzionata sussiste anche nell’ipotesi in cui l’uccisione o la lesione avvengano “immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di essa”. Spesso infatti i prigionieri muoiono in seguito a pestaggi o tentativi di evasione – solo per rimanere a Gradisca, si pensi a Majid El Kodra o a Vakhtang Enukidze – senza contare le spedizioni punitive spesso condotte nei giorni successivi le rivolte.
Insomma, il chiaro messaggio pare essere “anche se rischiate di ammazzarli, non pensateci due volte, tanto la colpa sarà sempre di chi rimane”.
L’inserimento tra le pratiche ordinarie di gestione dei cpr di metodi letali di contenimento di rivolte e proteste costituisce, di fatto, un enorme salto in avanti giuridico-repressivo, tale da andare persino molto al di là di quanto previsto nei regimi carcerari ordinari, fatte salve situazioni che rischino di diventare irrecuperabili, come quando nel 2020 e non per la prima volta, lo Stato non esitò a sparare addosso ai detenuti nelle carceri in rivolta.

La logica della guerra, per eliminare alla radice, quando reputato necessario, ogni forma di insubordinazione alla privazione della libertà, nella cornice più ampia della guerra sistemica portata contro marginali, irregolari, ribelli, irriducibili all’ordine imposto.
Mentre si cercano di spezzare i legami di solidarietà tra dentro e fuori, l’intento appare dunque chiaro: ristabilire l’ordine e potenziare ulteriormente la macchina della detenzione e dell’espulsione.
Nel mentre, per la fine dell’estate è previsto l’annuncio della lista dei siti designati ad ospitare i nuovi campi di deportazione previsti in ogni regione.

Infine, è di pochi giorni fa l’apertura di una nuova gara d’appalto per l’affidamento della gestione del cpr di Gradisca dopo che la precedente, risalente al 2022, si è arenata per le magagne giudiziarie di varie coop partecipanti senza giungere a conclusione, rimanendo quindi per il momento la solita Ekene a gestire il campo. La nuova gara prevede una capienza di 150 posti, per un importo stimato dell’appalto di circa 17 milioni e mezzo di euro.
A titolo di informazione, le coop in corsa per l’affidamento nella precedente gara risultavano, a maggio di quest’anno: Officine Sociali di Priolo Gargallo (SR), Martinina srl di Pontecagnano Faiano (SA), Azzurra srls di Senise (PZ), Associazione San Marco Onlus di Palma di Montechiaro (AG), La mano di Francesco onlus di Favara (AG), Coop Stella di Roasio (VC) e ancora Ekene di Battaglia Terme (PD).

Solidali con i rivoltosi/e nelle carceri e nei cpr

FUOCO A TUTTE LE GALERE
TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

Compagni e compagne

A Gradisca si muore: sappiamo chi è Stato

Due giorni fa, il 31 agosto 2022, un ventottenne pakistano del quale non sappiamo il nome si è ammazzato nel Cpr di Gradisca d’Isonzo. Era entrato un’ora prima.

Si è ammazzato in camera; l’hanno trovato i suoi compagni di reclusione.

Voci da dietro al muro

Da dietro le mura del CPR ci gridano che il ragazzo pakistano «ha fatto la corda» subito dopo l’incontro con il Giudice di pace di Gorizia che aveva confermato la sua permanenza nel centro per tre mesi. Ci chiedono di dire che si è ucciso dalla disperazione per quella scelta sulla sua vita. Ci dicono che era nella zona blu, dove tolgono i telefoni e dove vanno le persone appena entrate. I detenuti ci dicono che gli operatori del centro tengono loro nascosto il nome del ragazzo, nonostante le loro richieste.

Ci raccontano che molti, dopo le udienze con il Giudice di pace, si sentono male e altri hanno provato a impiccarsi, salvati poi dai compagni di stanza. Raccontano che in quei momenti si sta molto male e si perde la testa. Ci raccontano che è peggio di qualsiasi carcere e che nel cibo vengono messi psicofarmaci. Ci chiedono che parlamentari e giornalisti raccontino quello che succede realmente nei CPR ed entrino.

Chi ci parla ci dice di temere per la sua incolumità per quello che ci sta raccontando. Ci dice che si sta esponendo per tutti ma che i militari lo stanno guardando. Ci fornisce il suo nome e indirizzo perché teme per la sua vita, per il solo fatto di raccontare quello che succede. E noi lo sappiamo bene, ricordiamo come fosse ieri le deportazioni seriali e il sequestro immediato dei telefoni di tutti i detenuti che avevano testimoniato la notte della morte di Vakhtang.

Qui di seguito pubblichiamo due dei molti video ricevuti da dentro: un video a riguardo è stato pubblicato anche ieri da LasciateCIEntrare.

Repressione della solidarietà (con pistola puntata)

La sera del primo settembre, alcuni solidali sono passati davanti al Cpr per mostrare solidarietà ai reclusi e ascoltare le loro voci sulla morte del ragazzo pakistano. Mentre stavano lì, è arrivata una volante dei carabinieri, chiamata dal personale del Cpr insospettito dalla presenza di alcune persone fuori da quelle mura. 

Da una delle volanti, è uscito un carabiniere che ha cominciato a correre, non molto velocemente, puntando la pistola contro uno dei solidali. Le persone sono state perquisite e i cellulari sequestrati momentaneamente. Dopo un po’ di tempo, i solidali sono stati portati in caserma per essere identificati, dove hanno avuto la convalida del fermo di dodici ore. In caserma, uno dei solidali è stato costretto a una perquisizione integrale e a spogliarsi completamente.

L’esistenza del Cpr necessita del silenzio: la sola presenza di qualcuno nelle sue vicinanze origina sospetto e si tramuta in fermi, perquisizioni e, come successe ad altri solidali nel 2019, fogli di via dal territorio comunale. Il Cpr è istituzionalmente un luogo del quale bisogna ignorare l’esistenza, anche nei giorni in cui ammazza qualcuno. 

La violenza dell’arma puntata non ha alcuna giustificazione: la reazione poliziesca spropositata di fronte a un ragazzo bianco che non stava commettendo nessun reato ci interroga su quale sia il livello di soprusi al quale sono costrette ogni giorno le persone che non hanno la tutela della cittadinanza. Gli abusi di potere e la violenza razzista istituzionale tengono in piedi i Cpr ogni giorno.

Il commento indegno della garante

La Garante per i diritti delle persone recluse del comune di Gradisca, Giovanna Corbatto, commenta sul Messaggero veneto: «Non sappiamo se e quali fantasmi si portasse dietro, se la sua drammatica decisione sia stata pianificata o improvvisata, se avesse patologie. Avendo trascorso solo un’ora al Cpr sarei prudente nel citare le condizioni di vita all’interno come causa o concausa di un gesto così estremo».

Il meccanismo messo in atto da Corbatto è quello della colpevolizzazione della vittima (victim blaming): di fronte a un ragazzo che si è ammazzato dentro una struttura sulla decenza della quale lei stessa dovrebbe sorvegliare, Corbatto si rifiuta di riconoscere le responsabilità istituzionali e dà letteralmente la colpa alla vittima.

Il Cpr è uno spazio letale: si tratta di un dato innegabile, confermato dal susseguirsi delle morti. Chi muore lì dentro, in qualunque modo muoia, è un morto istituzionale, cioè un morto di Stato.

Quasi tre anni di un luogo letale

Nel lager di Gradisca dIsonzo, sono già morte troppe persone.

07/12/2021: Ezzeddine Anani, uomo marocchino di 41 anni, si toglie la vita nella cella in cui era recluso in isolamento per quarantena Covid.

14/07/2020: Orgest Turia muore in seguito a un’overdose e un suo compagno di stanza scampa alla stessa sorte. Mentre il prefetto di Gorizia Marchesiello dice che tutto va bene, dapprima la stampa locale diffonde la voce di una nuova morte per rissa, poi la sindaca Tomasinsig e rappresentanti della polizia ripropongono la narrazione infame dei detenuti tossici e dello spaccio di sostanze all’insaputa dei carcerieri. In realtà, Turia non è tossicodipendente, è un uomo di origini albanesi portato in Cpr perché trovato senza passaporto.

18/01/2020: Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano trentottenne, viene ammazzato, secondo i testimoni, dalle botte ricevute dalle guardie armate della struttura. A seguito della sua morte tutti i testimoni vengono deportati, i loro cellulari sequestrati, la famiglia di Vakhtang Enukidze in Georgia subisce forti pressioni per non prendere parte a un processo penale e, ad oggi, non è stato comunicato alcun esito ufficiale dell’autopsia sul corpo.

30/04/2014: Majid el Khodra muore in ospedale a Trieste, dopo mesi di coma, dopo una caduta dal tetto dell’allora Cie di Gradisca, ad agosto dell’anno precedente. Ai suoi familiari viene negata per mesi la possibilità di vederlo. Dopo la sua morte, il Cie chiude, per riaprire qualche anno dopo con il nuovo nome di Cpr.

L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci ricorda che ad ammazzare non sono mai «i fantasmi»: sono le leggi, le istituzioni, i rappresentati razzisti dello Stato. L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci dice che quel posto, che è stato voluto da tutti i governi, non è riformabile. Ci richiama a mobilitarci perché, se il Cpr continuerà a esistere, la gente continuerà a morirci dentro.

Migrant lives matter.

Testimonianze dal CPR di Gradisca, a due giorni dalla morte di R.

Ieri, 8 dicembre 2021, alcune decine di solidali hanno deciso di ritrovarsi sotto le mura del CPR di Gradisca d’Isonzo da dove il giorno prima era uscita la notizia del suicidio di un uomo marocchino rinchiuso in isolamento, per gridare la propria solidarietà e vicinanza ai reclusi.

Del ragazzo morto sappiamo, per ora, poco: pare che il suo nome iniziasse per R. e che portasse i dread lunghi. Era marocchino ed era arrivato da poco; era stato rinchiuso in isolamento per quarantena.

Alcune notizie sulla morte di R. ci arrivano da un video pubblicato su facebook da Campagne in lotta, che trascriviamo in parte qui sotto:

«Due sere fa, un ragazzo tunisino o marocchino è stato con noi in camera, però dopo l’hanno spostato da solo. Quella notte lì lui si è suicidato, hai capito? La mattina ci siamo svegliati e abbiamo chiesto di lui e ci hanno detto che lui stava male e l’avevano portato all’ospedale. Però ci sono altri ragazzi della stanza di fronte a lui che mi hanno detto che lui era morto, l’hanno portato morto già. Loro hanno detto che stava male e per quello l’hanno portato in ospedale, ma non hanno raccontato la verità, hai capito?»

Piano piano, stiamo riallacciando i rapporti con le persone che sono chiuse dentro il CPR. Ci hanno raccontato che dentro nessuno racconta loro nulla di ciò che succede. Alcuni operatori sono africani, come molte delle persone rinchiuse, ma questo non permette di creare rapporti di solidarietà («sono africani ma sono peggio della polizia!»).

Le persone hanno varie origini: Alcuni vengono direttamente dalle navi quarantena e vengono subito rimpatriati: si tratta soprattutto di tunisini e marocchini. Ci sono anche africani neri, arabi, serbi, kosovari, «tutti quelli che non vengono nell’unione europea».

I reclusi hanno a che fare con medici, alcuni «bravi, altri razzisti», «alcuni che non ti cagano e altri che ti cagano ma quando ti cagano se ne fregano».

Nelle celle ci stanno dodici persone; nella zona di isolamento in ogni cella ci stanno otto persone. Nelle celle c’è molto freddo, non c’è riscaldamento e ci sono delle finestre rotte, quindi di solito passano le giornate nella parte esterna delle stesse e accendono fuochi per scaldarsi con quello che trovano a disposizione. Ieri erano tutti dentro a causa della pioggia, le finestre, se non sono rotte, sono blindate.

Altre notizie sulla vita nel CPR ci arrivano dal video pubblicato da Campagne in lotta, del quale trascriviamo una seconda parte qui sotto:

«Vedi qua io ho sistemato questa porta mettendo lo scotch e la plastica per il freddo. La finestra era rotta. Abbiamo un amico che lavora qua e lui ci ha aiutato a sistemare; dall’altra parte purtroppo loro non hanno avuto questa fortuna… Solo che qua fa molto freddo. Questi sono i bagni che non puliscono neanche, vedi? Oggi non puoi fare la doccia perché l’acqua è fredda. Qua siamo in mezzo alla campagna, fa troppo freddo.»

Il video si conclude con un’inquadratura su un uomo accasciato a terra attorniato da personale sanitario (?) e sulla richiesta di un poliziotto (?) di «portare via il telefono e andare di là». 

Gli ultimi minuti del video mostrano la retata con la quale vengono prelevati dal CPR coloro che sono destinati al rimpatrio forzato: «portano gli africani in Africa perché sono senza documenti».  

Una voce commenta:

«Cosa hanno passato questi ragazzi per arrivare fino a qua… e quanti soldi hanno speso… per un pezzo di documenti… spero che oggi dormirete bene.»

Un’altra morte di Stato nel CPR di Gradisca

Due settimane fa, Abdel Latif, ventiseienne tunisino, è stato trovato morto, legato al letto, all’Ospedale san Camillo di Roma, dopo essere stato relegato su una nave quarantena e rinchiuso nel CPR di Ponte Galeria, a Roma. Ieri, il sistema delle prigioni su base etnica ha fatto un altro morto: non sappiamo come si chiami, sappiamo solo che era rinchiuso nel CPR di Gradisca d’Isonzo e che ieri mattina era già morto.

Dopo Majid el Khodra, Vakhtang Enukidze e Orgest Turia, aggiungiamo un ennesimo nome ai morti di Stato del lager della nostra regione. Non dobbiamo smettere di far arrivare la nostra solidarietà a chi è rinchiuso e non dobbiamo smettere di dire che i CPR vanno distrutti.