Di rivolte, scioperi della fame, tentativi di evasione e fughe. La normalità del campo di Gradisca

La lotta dei prigionieri nel campo per senza-documenti di Gradisca continua senza soste. Nelle ultime settimane gli episodi di rivolte, ribellioni e proteste sono stati diversi. Dopo la caduta da un tetto di un giovane prigioniero tunisino nella notte del 10 gennaio (con gravi lesioni alle gambe) e un nuovo incidente cinque giorni dopo, giovedì 16 gennaio si e’ scatenata una protesta incendiaria nella zona rossa. Il 21 gennaio, dopo due giorni di scontri, diversi fuochi sono stati accesi nella notte: la polizia è entrata nelle celle, caricando i detenuti e sequestrandogli i telefoni, che sono stati riconsegnati solo più tardi. Com’era già successo durante la notte di capodanno, alcuni prigionieri sono saliti sul tetto in segno di protesta. Sono così iniziati degli scontri all’interno del Cpr quasi ininterrotti. Martedì l’agitazione è cresciuta ancora: uno sciopero della fame collettivo è sfociato in una nuova rivolta con fuoco nell’area rossa. La polizia è intervenuta con lanci di lacrimogeni e getti d’acqua, com’è successo di nuovo durante la notte, quando alcuni detenuti avrebbero tentato la fuga, tra le nubi di fumo del campo.

Le motivazioni delle rivolte sono strutturali, sia per le condizioni di detenzione nel centro come per la sua stessa natura, di lager di tortura. Si susseguono scioperi della fame per la pessima qualità del cibo e la somministrazione di psicofarmaci assieme ad esso. Cio’ avviene con la complicità e necessaria collaborazione della cooperativa Ekene, che continua a gestire il centro in proroga, in attesa della nuova assegnazione in seguito alla gara d’appalto per la sua gestione indetta nel giugno del 2024 e chiusasi a settembre, nel corso della quale sono state presentate quattro offerte.

Spesso le guardie in antisommossa entrano nelle gabbie esterne alle camerate manganellando chiunque si trovi a tiro, ma questo non impedisce ai prigionieri di reagire, continuando a minare e sabotare pezzo per pezzo la tenuta del campo, che sembra al momento contenere molti meno prigionieri di quelli riportati dalla stampa locale e nei comunicati delle stesse guardie.

Se non possiamo che essere contenti che i cosiddetti costi “materiali e sociali” di cui si lamentano politicanti locali e guardie non facciano che aumentare rivolta dopo rivolta — attualmente l’operatività della struttura sarebbe già “seriamente compromessa” —, ribadiamo che gli unici “costi umani” sono quelli dei prigionieri rinchiusi in questi luoghi di tortura, umiliazione e morte, non certo quelli degli assassini con o senza divisa che ne permettono l’esistenza e il funzionamento.

FUOCO AI CPR E A TUTTE LE GALERE
TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

Contro il razzismo di stato: uno sguardo sulla detenzione amministrativa

Incontro e benefit per le persone recluse nel CPR di Gradisca

17 gennaio 2024 – ore 18

Via Tarabocchia 3, Trieste

La macchina del razzismo istituzionale, in Italia come in Europa, ha potenziato una strumento particolare, quello della detenzione amministrativa. Si tratta di una forma “eccezionale” di trattenimento e segregazione, già ampiamente utilizzato storicamente durante il colonialismo europeo in Africa, in Palestina fin dai tempi del mandato britannico e dal 1948 dall’entità coloniale sionista, per la repressione dei dissidenti e della resistenza, ma anche nel resto del territorio europeo, americano o australiano. Uno strumento che diventa sempre più la norma nella gestione dei cosiddetti flussi migratori e in più generale nel controllo della popolazione straniera.

In Italia trova espressione oggi nei CPR – prima CPT e CIE – cioè nei centri di tortura e deportazione per le persone senza documenti. Ma negli ultimi anni, dalle misure sull’immigrazione (come il “decreto Cutro” o i vari “pacchetti sicurezza”) al nuovo patto europeo sulle migrazioni e l’asilo, passando per l’accordo Italia-Albania, questo strumento ha trovato nuovi spazi e tempi: è il caso degli hotspot, dove vengono trattenuti per l’identificazione i migranti; dei nuovi centri di detenzione temporanei per le procedure d’asilo ed espulsione accelerate nei luoghi di sbarco – denominati Ctra – per quei paesi di provenienza ritenuti arbitrariamente sicuri; ma anche dei cosiddetti luoghi idonei, individuati nelle camere di sicurezza delle questure o delle stazioni di polizia. Per ragioni di sicurezza, identificazione e deportazione si diffondono sempre più capillarmente nuove forme di restrizione della libertà, applicate senza alcun tipo di garanzia legale, in primis alle persone migranti e razzializzate.

Non si tratta di misure isolate, ma di un complesso di dispositivi di segregazione e controllo che, in un contesto di razzismo sistemico, mirano a ricattare e terrorizzare chi non ha i documenti giusti, e così rafforzare, tra gli altri, i meccanismi di selezione e sfruttamento della forza lavoro immigrata. Vorremmo provare ad approfondire questi temi in una serata di confronto e informazione, in una prospettiva di solidarietà e complicità con le persone che si trovano incagliate in queste strutture (raramente sottomesse, come dimostrano le ribellioni nei CPR e le lotte dei braccianti).

La serata sarà anche un benefit per il sostegno alle lotte e alla solidarietà con quanti si trovano reclusi nelle galere etniche, tra cui il CPR di Gradisca d’Isonzo, a pochi chilometri da Trieste.

Ancora da Gradisca

Dopo l’ultima rivolta, che alla fine di maggio aveva distrutto l’area blu del Cpr di  Gradisca, il 10 luglio scorso è stata la stessa area a bruciare ancora: diverse  camerate sono state nuovamente distrutte e alcuni prigionieri sono riusciti a raggiungere il tetto.
Le rivolte continuano a susseguirsi senza sosta – l’ultima nella cosidetta “area verde” la sera del 4 agosto – minando sempre di più la struttura della galera amministrativa goriziana e costringendo persino i sindacati degli sbirri a chiederne la temporanea chiusura, naturalmente per consentirne il ripristino.

Nel frattempo, in seguito ai saluti portati sotto le mura del cpr negli ultimi mesi, sono al momento stati notificati 10 fogli di via da Gradisca (variabilmente dai 6 mesi fino ai 2 anni), motivati da decine di denunce pervenute solo successivamente a carico di altrettanti/e solidali.

Mentre continue rivolte stanno rendendo sempre più inutilizzabili molti dei cpr della penisola, intaccando così il sistema della espulsioni della cui funzione di ricatto essi costituiscono l’emblema fisico, il “pacchetto sicurezza” in arrivo – che potrebbe essere approvato entro la fine dell’anno – introduce nuovi reati e ne aggrava altri nel tentativo di mettere un argine a una situazione sempre meno gestibile anche per la tenuta della macchina di selezione-sfruttamento-ricatto-reclusione-espulsione.
E’ il caso della condanna alla reclusione da 1 a 6 anni per ogni prigioniero/a che all’interno di un cpr o altra cosiddetta struttura di accoglienza, “mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità, posti in essere da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena prevista va da 1 a 4 anni, mentre è previsto inoltre un aggravamento della pena se il fatto è commesso con l’uso di armi o se nella rivolta qualcuno/a rimane ucciso o riporta lesioni gravi o gravissime.
E’ evidente che per il legislatore risulti del tutto indifferente da che parte provenga l’azione in grado di causare lesioni o portare alla morte e, di conseguenza, chi ne sia la vittima.
Siccome di norma sono gli sbirri a picchiare ed ammazzare i reclusi/e dentro carceri e campi della reclusione “amministrativa” – purtroppo non succede spesso il contrario – durante ma anche in assenza di rivolte, è facile immaginare quale genere di mano libera questa postilla possa garantire alle future azioni di repressione delle rivolte e alle violenze del tutto sommarie all’interno dei campi da parte delle guardie.
Dal momento che l’agibilità di chi agisce coperto da una divisa deve diventare sempre più totale (dentro carceri e cpr come anche all’esterno), l’aggravante summenzionata sussiste anche nell’ipotesi in cui l’uccisione o la lesione avvengano “immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di essa”. Spesso infatti i prigionieri muoiono in seguito a pestaggi o tentativi di evasione – solo per rimanere a Gradisca, si pensi a Majid El Kodra o a Vakhtang Enukidze – senza contare le spedizioni punitive spesso condotte nei giorni successivi le rivolte.
Insomma, il chiaro messaggio pare essere “anche se rischiate di ammazzarli, non pensateci due volte, tanto la colpa sarà sempre di chi rimane”.
L’inserimento tra le pratiche ordinarie di gestione dei cpr di metodi letali di contenimento di rivolte e proteste costituisce, di fatto, un enorme salto in avanti giuridico-repressivo, tale da andare persino molto al di là di quanto previsto nei regimi carcerari ordinari, fatte salve situazioni che rischino di diventare irrecuperabili, come quando nel 2020 e non per la prima volta, lo Stato non esitò a sparare addosso ai detenuti nelle carceri in rivolta.

La logica della guerra, per eliminare alla radice, quando reputato necessario, ogni forma di insubordinazione alla privazione della libertà, nella cornice più ampia della guerra sistemica portata contro marginali, irregolari, ribelli, irriducibili all’ordine imposto.
Mentre si cercano di spezzare i legami di solidarietà tra dentro e fuori, l’intento appare dunque chiaro: ristabilire l’ordine e potenziare ulteriormente la macchina della detenzione e dell’espulsione.
Nel mentre, per la fine dell’estate è previsto l’annuncio della lista dei siti designati ad ospitare i nuovi campi di deportazione previsti in ogni regione.

Infine, è di pochi giorni fa l’apertura di una nuova gara d’appalto per l’affidamento della gestione del cpr di Gradisca dopo che la precedente, risalente al 2022, si è arenata per le magagne giudiziarie di varie coop partecipanti senza giungere a conclusione, rimanendo quindi per il momento la solita Ekene a gestire il campo. La nuova gara prevede una capienza di 150 posti, per un importo stimato dell’appalto di circa 17 milioni e mezzo di euro.
A titolo di informazione, le coop in corsa per l’affidamento nella precedente gara risultavano, a maggio di quest’anno: Officine Sociali di Priolo Gargallo (SR), Martinina srl di Pontecagnano Faiano (SA), Azzurra srls di Senise (PZ), Associazione San Marco Onlus di Palma di Montechiaro (AG), La mano di Francesco onlus di Favara (AG), Coop Stella di Roasio (VC) e ancora Ekene di Battaglia Terme (PD).

Solidali con i rivoltosi/e nelle carceri e nei cpr

FUOCO A TUTTE LE GALERE
TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

Compagni e compagne

FINCHÈ NON CROLLERÀ: aggiornamenti da Gradisca

La sera del 28 aprile ha avuto luogo al cpr di Gradisca un altro tentativo di fuga. Otto prigionieri hanno cercato di evadere, fortunatamente tre di essi sono riusciti a far perdere le proprie tracce, complice il buio. Un altro, cadendo dal muro di cinta si è fratturato la caviglia ed è stato trasportato all’ospedale (ci risulta attualmente libero), gli altri, alla fine di una notte passata sui tetti, sono stati poi riportati nelle celle dalle guardie.

Il mese appena trascorso è stato molto movimentato all’interno del campo: il lancio del cibo avariato nei corridoi seguito da uno sciopero della fame di due giorni; l’evasione di nove prigionieri – di cui solo uno è sfuggito alla ricattura; la forte rivolta di mercoledì 10 aprile, in seguito al tentativo da parte delle guardie e della cooperativa Ekene di installare sbarre metalliche al soffitto della parte esterna delle celle e alle intense proteste che ne sono seguite, durante le quali i letti sono stati incendiati e le pareti di plexiglass distrutte. Gli sbirri sono intervenuti con manganelli e lacrimogeni e uno di essi se n’è andato con una gamba fracassata.

La domenica successiva si è tenuto un lungo e rumoroso saluto, volto a far arrivare forte e chiara la nostra solidarietà ai reclusi.

Nel frattempo è anche iniziato il processo per la morte di Vakhtang Enukidze: nella seconda udienza del 26 aprile è stata raccolta la testimonianza dello sbirro che coordinò le indagini all’epoca dei fatti. Secondo questa testimonianza, Enukidze sarebbe morto in seguito ad un pestaggio all’interno del carcere di Gorizia dove era stato portato dal cpr – completamente in salute, secondo lo sbirro – due giorni prima di morire, nuovamente all’interno del cpr.
Immediatamente dopo la morte, parlavano di un “edema polmonare acuto” in seguito ad una rissa fra detenuti nel campo, poi “un’overdose di sostanze xenobiotiche unita a broncopolmonite”, adesso il pestaggio letale in carcere, forse perchè la realtà quotidiana delle galere nazionali lo rende addirittura più verosimile.
Cosa dicono gli sbirri ci interessa poco, ancor meno se dentro ai tribunali, ma di fronte a questa serie senza fine di infamità, ci teniamo a ribadire che Vakhtang Enukidze è morto, dopo due giorni di agonia, a seguito del pestaggio di otto guardie in tenuta antisommossa nella sua cella dentro al cpr.
Importante o meno che sia insistere sui dettagli di questa o di tutte le morti dentro le galere o i campi di deportazione, è sempre più schiacciante l’evidenza dell’operato delle strutture di privazione della libertà, volto scientemente e deliberatamente all’annientamento anzitutto mentale – e poi fisico, sempre più spesso fino alle estreme conseguenze – di coloro che hanno la sciagura di trovarsi al suo interno. Di questo ruolo di annichilimento e irrigimentazione – complementare alle funzioni di ricatto e minaccia utili all’amministrazione dell’ordine dello sfruttamento – c’è un bisogno sempre crescente soprattutto quando venti di guerra soffiano sempre più forti e quegli stessi ruoli e funzioni devono estendersi sempre più al mondo esterno, allo scopo di un controllo sociale sempre più serrato e finalizzato alla pacifica riproduzione del sistema di generazione del profitto e saccheggio delle risorse dentro e fuori dai patrii confini.
Mentre si discute ossessivamente di nuove e più capienti carceri, di campi per la deportazione in ogni regione e nella (ex-)colonia albanese, di accordi per impedire le partenze nei Paesi a sud del Mediterraneo, il sistema di selezione della manodopera da sfruttare non deve essere scalfito, contro (quasi) ogni evidenza, anche quella che i cpr sono sempre stati chiusi, e continuano ad esserlo, grazie alle rivolte dei reclusi.

A tal proposito, il questore di Gorizia non sa più cosa dire che non risulti ridicolo per negare la realtà di una prigione sempre più evadibile e soggetta a continue rivolte che ne minano sempre di più la tenuta, come avviene anche negli altri cpr della penisola. Lo scorso gennaio, appena insediato, lo stesso individuo aveva definito il cpr gradiscano “un’eccellenza nella gestione”, uno dei “più efficienti d’Italia”. Noi ci auguriamo che continui ad esserlo, ma nel modo che ogni giorno mettono in pratica con coraggio e determinazione i prigionieri, finchè di questo e di tutti i cpr non restino che macerie.

Compagni e compagne

OLTRE QUELLE MURA: a fianco dei reclusi di Gradisca, di Jamal, dei compagni/e arrestati/e a Malpensa

Il pomeriggio del 24 marzo siamo stati/e sotto le mura del Cpr di Gradisca d’Isonzo per far arrivare la nostra solidarietà ai reclusi in un centro che da mesi vede succedersi continuamente rivolte, atti di ribellione, tentativi di evasione e fortunatamente anche molte fughe riuscite.
Se la zona più vicina all’accesso, quella dalla quale normalmente era più facile udire le voci dei prigionieri, questa volta è rimasta completamente silenziosa, poco dopo esserci spostati/e sul retro ci è arrivata distintamente per molti minuti la rabbiosa risposta dei reclusi in quell’ala, con urla e battiture, prima che anche queste venissero ridotte al silenzio.

Nel campo di Gradisca, dalla sua riapertura alla fine del 2019, sono morte da quel che si sa 4 persone: Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, Anani Ezzedine e Arshad Jahangir. La sua gestione è ancora in mano alla cricca di aguzzini preferita della prefettura di Gorizia, e cioè la cooperativa Ekene di Battaglia Terme (Padova), il cui capo Simone Borile è finito rinviato a giudizio per “omicidio colposo” per la morte nel gennaio 2020 di Vakhtang Enukidze, in realtà ucciso di botte dalle guardie.

La deportazione di Jamal, imprigionato per alcuni giorni a Gradisca prima di essere deportato in Marocco – come tutte le deportazioni che avvengono ogni settimana – non spengono la lotta, ma semmai le donano ancora più forza, nella spinta a far sì che tutti i lager di Stato vengano distrutti.
Le lotte presenti e passate, non solo contro i campi di deportazione, ci dicono che la solidarietà e il supporto alle rivolte è tanto doverosa e necessaria quanto l’attacco diretto ai responsabili e ai complici – persone, aziende, enti, istituzioni – dell’esistenza di questi luoghi, coloro il cui operato ne rende concreto e possibile il funzionamento.
Ci sono e ci saranno momenti di angoscia e scoramento, ma le continue evasioni, le continue azioni di rivolta e distruzione interne ai campi, l’azione determinata e coraggiosa dei reclusi che hanno chiuso il Cpr di Torino, dei compagni/e che a Malpensa hanno bloccato la deportazione in atto e di quelli/e che a Caltanissetta si sono messi di traverso, ci dicono che “la macchina delle espulsioni vorrebbe sembrare, ed essere mostrata, come un’inattaccabile fortezza costruita sulle fondamenta del razzismo” ma che a volte “basta poco a tirare giù il muro disumanizzante che silenzia la violenza e avvalla l’inaccettabile”.

Ci uniamo ancora alle parole seguite agli arresti del 20 marzo, “tutto ciò che è successo a Torino e a Malpensa è potenzialmente replicabile e riproducibile. La lotta contro la macchina delle espulsioni e la detenzione amministrativa è possibile ed è reale nei suoi obbiettivi e nelle sue prospettive. Sappiamo che alla repressione si risponde con la lotta come ci insegna la resistenza palestinese tutti i giorni”.

La nostra solidarietà va a tutti/e i/le reclusi/e, a Jamal che oggi si trova in Marocco, a Josto, Ele, Miri, Peppe, a tutti/e i compagni/e prigionieri/e e in ogni modo privati della loro libertà

FUOCO AI CPR
FUOCO A TUTTE LE GALERE

TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE

compagne e compagni

Dalla parte di chi prova ad abbattere quelle mura

Qualche giorno dopo il weekend di mobilitazione contro i CPR e le frontiere, ci teniamo a condividere alcune considerazioni su questi due giorni.

Chi ha partecipato e portato i generi di prima necessità ai reclusi non lo ha fatto per spirito di carità, ma perché ha intimamente capito che in quel luogo di tortura i pacchi che abbiamo consegnato possono trasformarsi in mezzo per allargare le maglie di un sistema che attraverso privazioni e violenza si traduce in tortura.

Il cibo che abbiamo messo dentro a quei pacchi potrà forse aiutare qualcuno a rifiutarsi di mangiare il cibo fornito all’interno del CPR da Ekene, la cooperativa che lo gestisce. Dentro quelle razioni – a Gradisca come negli altri CPR – vengono infatti nascosti psicofarmaci volti ad ammansire i prigionieri (o ospiti, come li chiamano loro). Da qui il significato politico dei generi alimentari, non abbiamo mai voluto rendere più vivibile quel centro di tortura amministrativa.

Un grande grazie anche alle compagne che sono venute a presentarci I CPR si chiudono col fuoco. L’opuscolo (disponibile qui) presenta le testimonianze delle persone rinchiuse e delle rivolte che quest’inverno hanno bruciato molte sezioni del CPR di corso Brunelleschi fino a provocarne la chiusura.

Noi siamo convinte: le affinità politiche più strette si legano attraverso la condivisione delle pratiche di lotta, e per questo ci teniamo a rimandare alla prossima chiamata nazionale, il Passamontagna del 4-5-6 Agosto. Invitiamo chi può a essere presente: la pretesa sovranità degli Stati sui confini nazionali si spezza attraversandoli.

Segnaliamo poi una vicenda estremamente grave, a dimostrazione che la mobilitazione e la solidarietà sono sempre più necessarie per rompere quello stato di invisibilità e isolamento in cui i CPR sono confinati. Nei contatti avvenuti in questi giorni con l’interno abbiamo infatti scoperto che una persona tunisina è in sciopero della fame da tre settimane e negli ultimi giorni è stato portata in ospedale a seguito di atti di autolesionismo. Ieri sera è stato riportato al CPR, ma in una cella e in un’area distanti dai compagni che, in solidarietà, avevano iniziato a rifiutare il cibo. È la seconda volta che intraprende il digiuno nell’ultimo mese, in segno di protesta verso la detenzione arbitraria a cui è sottoposto. Ha avuto problemi politici in Tunisia a seguito delle rivolte della primavera araba, ma nonostante questo la sua richiesta asilo è stata respinta come “pretestuosa”.

Ma le voci dai CPR, per chi vuole ascoltare, parlano di abusi costanti e di persone che nonostante tutto non si piegano: le proteste e le rivolte sono continue, anche se rimangono nel silenzio colpevole di quelle quattro mura. Sta anche a noi farle risuonare, portando solidarietà e appoggio.

Ringraziamo anche per questo le forze dell’ordine, la Prefettura di Gorizia e la cooperativa Ekene che, gelosi di mantenere le persone rinchiuse, sedate e isolate, hanno negato con la forza al presidio di spostarsi sotto le mura del CPR e, sempre con la forza, hanno impedito ai reclusi di far uscire le loro voci da quelle stesse mura.

Come ribadito più volte durante i dibattiti, le persone rinchiuse sono pienamente consapevoli dell’ingiustizia e della violenza che sono costrette a subire all’interno del CPR, tanto da arrivare al punto di mettere a repentaglio il proprio futuro e le proprie stesse vite per far cadere quel muro. C’è chi ha rischiato il rimpatrio per far uscire la testimonianza di un omicidio, c’è chi ha rischiato la pelle per distruggere le mura, il ringraziamento più grande va a loro. Il bisogno profondo di libertà è più potente dell’oppressione quotidiana e soffocante, e il minimo che possiamo fare da fuori è sostenere e amplificare queste voci e questa lotta che riguarda tutti e tutte.

Solidali con chi subisce la violenza dei CPR e delle frontiere e dalla parte di chi prova ad abbattere queste mura.

Scritto con Burjana  https://laburjana.noblogs.org/post/2023/07/13/dalla-parte-di-chi-prova-ad-abbattere-quelle-mura/

Abbiamo il nome e l’orrore continua

Arshad Jahangir, così si chiama il ragazzo morto nel CPR di Gradisca il 31 agosto 2022, come ha diffuso il comune. Sopravvissuto all’attraversamento delle frontiere per entrare in Europa (che non sappiamo come sia avvenuto) e alle difficoltà della ricerca di un permesso di soggiorno, è il CPR di Gradisca il luogo che, nella sua atrocità, gli ha fatto provare ad uccidersi, e a farcela, nell’assenza di soccorsi e cura che vige nel centro. È il quinto morto sotto la gestione delle cooperative di Simone Borile: quattro nel CPR di Gradisca negli ultimi due anni e mezzo, una prima, a Conetta.

L’orrore del CPR si esprime in continuazione, ogni volta che si decide di ascoltarlo, nell’omertá di media ed istituzioni, chiedendo una notizia da dentro. Oggi, ci raccontano, un ragazzo ha provato a farsi male e ha perso i sensi; ci chiedono di diffondere la sua foto, perché non siano gli unici a sapere.

Tutti e tutte sappiamo, prendiamocene le responsabilità. Se ognuno/a fa qualcosa, nei modi che ritiene opportuni, quel centro chiuderà.

 

Nessun soccorso – nessuna risposta

Da dentro al lager di gradisca i detenuti ci comunicano che altre due persone hanno tentato il suicidio nelle ultime 48 ore, ma che fortunatamente sono state salvate dai compagni di cella. Ci inviano moltissimi video della loro rivolta ma in particolare pubblichiamo questo, girato ieri, 5 settembre 2022, in cui si vedono i detenuti di una cella chiamare i soccorsi, urlando e sbattendo le porte, mentre un compagno di stanza é incosciente e altri cercano di aiutarlo.

I soccorsi non arrivano.

Queste notizie devono girare, raggiungere il dibattito pubblico, perché possano contribuire a far chiudere questi lager.

Ricordiamo che chi fa uscire queste informazioni mette a repentaglio la sua sicurezza e la sua possibilità di rimanere in italia, accanto ai suoi cari.

Facciamo tesoro di questa generosità, non ignoriamo i cpr.

 

A Gradisca si muore: sappiamo chi è Stato

Due giorni fa, il 31 agosto 2022, un ventottenne pakistano del quale non sappiamo il nome si è ammazzato nel Cpr di Gradisca d’Isonzo. Era entrato un’ora prima.

Si è ammazzato in camera; l’hanno trovato i suoi compagni di reclusione.

Voci da dietro al muro

Da dietro le mura del CPR ci gridano che il ragazzo pakistano «ha fatto la corda» subito dopo l’incontro con il Giudice di pace di Gorizia che aveva confermato la sua permanenza nel centro per tre mesi. Ci chiedono di dire che si è ucciso dalla disperazione per quella scelta sulla sua vita. Ci dicono che era nella zona blu, dove tolgono i telefoni e dove vanno le persone appena entrate. I detenuti ci dicono che gli operatori del centro tengono loro nascosto il nome del ragazzo, nonostante le loro richieste.

Ci raccontano che molti, dopo le udienze con il Giudice di pace, si sentono male e altri hanno provato a impiccarsi, salvati poi dai compagni di stanza. Raccontano che in quei momenti si sta molto male e si perde la testa. Ci raccontano che è peggio di qualsiasi carcere e che nel cibo vengono messi psicofarmaci. Ci chiedono che parlamentari e giornalisti raccontino quello che succede realmente nei CPR ed entrino.

Chi ci parla ci dice di temere per la sua incolumità per quello che ci sta raccontando. Ci dice che si sta esponendo per tutti ma che i militari lo stanno guardando. Ci fornisce il suo nome e indirizzo perché teme per la sua vita, per il solo fatto di raccontare quello che succede. E noi lo sappiamo bene, ricordiamo come fosse ieri le deportazioni seriali e il sequestro immediato dei telefoni di tutti i detenuti che avevano testimoniato la notte della morte di Vakhtang.

Qui di seguito pubblichiamo due dei molti video ricevuti da dentro: un video a riguardo è stato pubblicato anche ieri da LasciateCIEntrare.

Repressione della solidarietà (con pistola puntata)

La sera del primo settembre, alcuni solidali sono passati davanti al Cpr per mostrare solidarietà ai reclusi e ascoltare le loro voci sulla morte del ragazzo pakistano. Mentre stavano lì, è arrivata una volante dei carabinieri, chiamata dal personale del Cpr insospettito dalla presenza di alcune persone fuori da quelle mura. 

Da una delle volanti, è uscito un carabiniere che ha cominciato a correre, non molto velocemente, puntando la pistola contro uno dei solidali. Le persone sono state perquisite e i cellulari sequestrati momentaneamente. Dopo un po’ di tempo, i solidali sono stati portati in caserma per essere identificati, dove hanno avuto la convalida del fermo di dodici ore. In caserma, uno dei solidali è stato costretto a una perquisizione integrale e a spogliarsi completamente.

L’esistenza del Cpr necessita del silenzio: la sola presenza di qualcuno nelle sue vicinanze origina sospetto e si tramuta in fermi, perquisizioni e, come successe ad altri solidali nel 2019, fogli di via dal territorio comunale. Il Cpr è istituzionalmente un luogo del quale bisogna ignorare l’esistenza, anche nei giorni in cui ammazza qualcuno. 

La violenza dell’arma puntata non ha alcuna giustificazione: la reazione poliziesca spropositata di fronte a un ragazzo bianco che non stava commettendo nessun reato ci interroga su quale sia il livello di soprusi al quale sono costrette ogni giorno le persone che non hanno la tutela della cittadinanza. Gli abusi di potere e la violenza razzista istituzionale tengono in piedi i Cpr ogni giorno.

Il commento indegno della garante

La Garante per i diritti delle persone recluse del comune di Gradisca, Giovanna Corbatto, commenta sul Messaggero veneto: «Non sappiamo se e quali fantasmi si portasse dietro, se la sua drammatica decisione sia stata pianificata o improvvisata, se avesse patologie. Avendo trascorso solo un’ora al Cpr sarei prudente nel citare le condizioni di vita all’interno come causa o concausa di un gesto così estremo».

Il meccanismo messo in atto da Corbatto è quello della colpevolizzazione della vittima (victim blaming): di fronte a un ragazzo che si è ammazzato dentro una struttura sulla decenza della quale lei stessa dovrebbe sorvegliare, Corbatto si rifiuta di riconoscere le responsabilità istituzionali e dà letteralmente la colpa alla vittima.

Il Cpr è uno spazio letale: si tratta di un dato innegabile, confermato dal susseguirsi delle morti. Chi muore lì dentro, in qualunque modo muoia, è un morto istituzionale, cioè un morto di Stato.

Quasi tre anni di un luogo letale

Nel lager di Gradisca dIsonzo, sono già morte troppe persone.

07/12/2021: Ezzeddine Anani, uomo marocchino di 41 anni, si toglie la vita nella cella in cui era recluso in isolamento per quarantena Covid.

14/07/2020: Orgest Turia muore in seguito a un’overdose e un suo compagno di stanza scampa alla stessa sorte. Mentre il prefetto di Gorizia Marchesiello dice che tutto va bene, dapprima la stampa locale diffonde la voce di una nuova morte per rissa, poi la sindaca Tomasinsig e rappresentanti della polizia ripropongono la narrazione infame dei detenuti tossici e dello spaccio di sostanze all’insaputa dei carcerieri. In realtà, Turia non è tossicodipendente, è un uomo di origini albanesi portato in Cpr perché trovato senza passaporto.

18/01/2020: Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano trentottenne, viene ammazzato, secondo i testimoni, dalle botte ricevute dalle guardie armate della struttura. A seguito della sua morte tutti i testimoni vengono deportati, i loro cellulari sequestrati, la famiglia di Vakhtang Enukidze in Georgia subisce forti pressioni per non prendere parte a un processo penale e, ad oggi, non è stato comunicato alcun esito ufficiale dell’autopsia sul corpo.

30/04/2014: Majid el Khodra muore in ospedale a Trieste, dopo mesi di coma, dopo una caduta dal tetto dell’allora Cie di Gradisca, ad agosto dell’anno precedente. Ai suoi familiari viene negata per mesi la possibilità di vederlo. Dopo la sua morte, il Cie chiude, per riaprire qualche anno dopo con il nuovo nome di Cpr.

L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci ricorda che ad ammazzare non sono mai «i fantasmi»: sono le leggi, le istituzioni, i rappresentati razzisti dello Stato. L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci dice che quel posto, che è stato voluto da tutti i governi, non è riformabile. Ci richiama a mobilitarci perché, se il Cpr continuerà a esistere, la gente continuerà a morirci dentro.

Migrant lives matter.

Autolesionismo e mancato soccorso nel CPR di Gradisca

In queste ultime ore, da dentro il CPR di Gradisca escono storie di violenza, autolesionismo e mancato soccorso.

Un video pubblicato su un gruppo facebook di persone tunisine in Italia mostra due persone a terra, in mezzo al sangue, dopo essersi procurate dei tagli (TW: sangue, autolesionismo). L’autolesionismo è una pratica di resistenza spesso utilizzata dai reclusi, che sono privati di ogni altra maniera di denunciare la propria situazione e rivendicare il proprio desiderio di libertà.

Dentro è un inferno, i reclusi ci raccontano che vengono trattati di merda, non escono mai dalle gabbie e non vengono portati in ospedale neppure quando i medici che li visitano nel CPR dicono che dovrebbero andarci.

In questo caso, si è dovuta aspettare più di un’ora per i due uomini che stavano perdendo molto sangue. Per ora, le voci su cosa sia successo non sono confermate.

Il deputato tunisino Majdi Karbai, che spesso ha raccontato la situazione dei tunisini in Italia, ha scritto oggi in un post di aver contattato il Garante per i diritti delle persone detenute e dei funzionari del ministero della Giustizia al fine di aprire un’indagine su quanto è successo ieri a Gradisca.

Intanto, pochi giorni fa è stato il secondo anniversario della morte di Vakhtang Enukidze, morto a un mese dalla riapertura del CPR, dopo un pestaggio poliziesco. Dopo di lui, dentro la galera etnica di Gradisca, sono morti anche Orgest Turia, nell’estate 2020, e Ezzedine Anani, il mese scorso. Ezzedine, tunisino, se non fosse morto, sarebbe stato deportato direttamente in Tunisia, come avviene con tutti i suoi concittadini che da Gradisca, bisettimanalmente, vengono rimandati nel luogo dal quale hanno scelto di andarsene.