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(Just one moment)

Cronache di un sequestro: aggiornamenti di luglio dal CPR di Gradisca d’Isonzo

Che sia per le condizioni inumane, per la calura estiva e il cemento ribollente, per l’indeterminatezza delle modalità di restrizione della libertà personale nella detenzione amministrativa (come sollevato recentemente addirittura dalla corte costituzionale), per un’epidemia di scabbia o per il trattemento degradante a cui sono continuamente sottoposti i reclusi, i CPR rimangono delle forme istituzionalizzate di tortura, con precisi scopi di espulsione e controllo delle componente umana in eccesso nella riproduzione sociale e nella sua valorizzazione capitalistica.

La formulazione potrebbe sembrare un po’ ostica, ma si tratta in fondo di chiarire un aspetto fondamentale sulla natura dei CPR, che, meglio delle dotte disquisizioni, ci viene descritta perfettamente dalle parole, e dalle lotte, dei reclusi. C’è un’ immediatezza nei fuochi e nella continua insubordinazione che sorpassa i discorsi che vorrebbero “umanizzare” i lager, la loro natura mortifera, il terrore a cui mirano, il monito che rappresentano. E soprattutto oltrepassa e polverizza quei discorsi che vorrebbero separare il CPR dal suo contesto, la macchina del razzismo di stato, i suoi mille ingranaggi che lo rendono un sistema gerarchico di terrore, sfruttamento ed espulsione; come se fosse un incidente di percorso, una misura particolarmente afflittiva caduta per caso nel nostro ordinamento.

All’improvviso, la scabbia

In questi giorni, dentro e fuori, si parla molto, ad esempio, dei casi di scabbia al CPR di Gradisca. Sappiamo che almeno un recluso è stato liberato in questi giorni dopo una diagnosi di infestazione. Sappiamo che subito dopo c’è stato un rapido (e improvvisato) intervento della cooperativa Ekene per cercare di contenere “il caso” (mica il rischio, il prurito infernale, le condizioni insalubri in cui sono costrette le persone ingabbiate): un viavai di disinfestazioni (spesso solo nei corridoi…), stanze chiuse, spostamenti, cambi lenzuola, persino di visite (cosa può fare una scabbia che esce sui giornali!) da parte delle altre divise, quelle in camicia e il giuramento di Ippocrate nel culo. (parentesi: tutto il resto, la malattia, i danni nel corpo e nella mente, invisibili e cronicizzati, possono ben continuare a spezzare la salute dei reclusi, funziona così nella tortura).

Ovviamente ciò rappresenta anche una possibile via d’uscita per molti, un appiglio di fronte all’insopportabile reclusione. Il punto è che la scabbia, come tutte gli altri parametri di funzionamento del lager CPR, sono il sintomo, non la causa, della sua natura torturatrice.

Ce lo dice un recluso: “mi hanno dato la crema, adesso stanno pulendo con detergenti e detersivi, e poi questo e quest’altro, ma vaffanculo, qua dobbiamo fare noi a modo nostro, tiriamo avanti fin quando questa storia di merda, questo CPR del cazzo, non finisce: non si trattano così le persone”.

Le convalide e la corte

Un altro elemento ha inevitabilmente influenzato le dinamiche interne ed esterne ai CPR è la sentenza della corte costituzionale che ha sollevato tutta una serie di incertezze relative alla modalità e alla regolazione della detenzione amministrativa. In sostanza il legislatore non avrebbe previsto e specificato le condizioni e i “modi” della detenzione etnica, delegando quindi a tutta una serie di criteri e regolamenti discrezionali questa tipologia di restrizione della libertà personale. Lo stato chiede a se stesso di precisare un po’ meglio come rapire e tenere in ostaggio le persone senza documenti, senza troppe magagne giuridiche e amministrative. La reclusione in CPR resta un “sequestro senza reato”, come ci ha ben rappresentato un recluso di via Corelli, a Milano, mostrandoci che, seppur a differenti condizioni, i CPR hanno tutti uno stesso scopo, ben preciso.

Tuttavia, ciò apre tutta un’incertezza contingente rispetto alla reclusione in CPR. Lo intuiamo (senza alcuna certezza) nel dialogo con i prigionieri a partire da alcune liberazioni avvenute nelle ultime settimane e tutta una serie di nuove convalide di soli 15 o 20 giorni, che hanno dato un po’ di speranza a molti. Una data di possibile liberazione pià vicina, qualcosa su cui aggrapparsi.

Anche qui, in vista di nuove “definizioni” su come dovrebbe funzionare la detenzione amministrativa, ci arrivano – chiarificatrici – le parole di un (ex) recluso di gradisca: “il giudice di pace convalida sempre alla prima udienza, neanche guarda la tua situazione, poi si vede dopo; che poi per come sono le cose là dentro, non è di pace, ma di guerra, quel giudice”.

Ecco ancora che emerge la natura di quei luoghi: una guerra – più o meno regolata dal diritto (inter)nazionale – nei confronti di una parte di popolazione.

Ancora e ancora, le rivolte e la ribellione quotidiana

Fuochi e proteste nell’area verde

La situazione al CPR di Gradisca è un po’ diversa dal solito, apparenemente la struttura e le sue aree sembrano meno affollate. E’ probabilmente un’illusione ottica dovuta al fatto che l’area blu – ad alta deportazione – è meno piena. Le situazione descritta sopra ed alcuni (ancora limitati) lavori di ristrutturazione comportano la chiusura di alcune gabbie: i reclusi sono però maggiormente distruibuiti sulle tre aree (l’area rossa, ad esempio,  sta rientrando gradualmente a regime, contenendo – secondo le logiche etniche della detenzione – principalmente persone di provenienza subsahariana e balcanica) e il lager continua ad assolvere alla sua funzione. 

Il caldo e le dosi massicce di terapia hanno sicuramente condizionato queste ultime settimane. Ma che si decida di parlarne o meno, quello che accade dentro resta una continua ribellione, individuale e collettiva, che ci dice molto della natura del luogo. Qualcuno usa il proprio corpo come un’arma: chi si spezza una gamba, chi ingerisce “vetro” (probabilmente pezzi del plexiglass che racchiude le gabbie), chi prende a calci un muro di fronte al muro di silenzio, il solito “vediamo” in risposta e i manganelli che gli rimandano indietro qualunque richiesta legata alla sopravvivenza. Si viene presi, sbatutti in una gabbia per un periodo indeterminato e lasciati lì ad arrostire: come si può cercare di sopravvivere? Cosa si fa se si ha bisogno di qualcosa, fosse anche un asciugamano? Ci si ribella, si reagisce, senza dover subire la degradazione ad uno stato di totale sottomissione e subalternità all’ingranaggio. Così, semplicemente perché non si ha un documento.

Alla protesta individuale si aggiunge quella collettiva, nel riconoscimento della comune condizione. Una settimana fa ormai ha avuto luogo l’ennesima rivolta in alcune celle dell’area blu, composte da molti giovani tunisini. Pare che qualche funzionario ne abbia fatto le spese. Pochi giorni dopo almeno due reclusi sono stati arrestati e portati in carcere a Gorizia. In quegli stessi giorni diversi prigionieri sono saliti sui tetti: di fronte ad una macchina volta solo ad annientare, è meglio cercare di sfuggirle buttandosi sopra il tetto. Non si è risolta purtroppo in un’evasione, ma per un po’ si è pur sempre respirata un po’ di aria di libertà.

Continuano poi anche i fuochi, nell’area verde ad esempio: incendi e proteste del cibo che minano, pezzetto dopo pezzetto, la struttura e il funzionamento della detenzione.

La macchina dell’espulsione e della deportazione

L’evasione al momento di una deportazione in Marocco tramite volo Royal Air Maroc all’aeroporto di Bologna

“Qui si muore ogni giorno”, ci ripetono spesso, che sia rispetto alla situazione di Gradisca o a quella di Milano e di ogni altro CPR. Lo vediamo spesso questo istinto di fronte alla morte, alla minaccia, al terrore rappresentato dall’infrastruttura della reclusione e dalle sua ramificazioni correlate, come ad esempio gli aeroporti civili da cui partono charter e voli di linea verso le destinazioni di “rimpatrio”. Fa specie, in questo periodo estivo, sapere del funzionamento delle deportazioni, normalizzate dietro la patina turistica delle vacanze estive, in alcuni casi le stesse identiche mete della deportazioni. Prendiamo il caso dell’Egitto, che abbiamo trattato in un opuscolo dedicato (link): mentre la fabbrica del turismo porta visitatori di mezzo mondo ed anche verso le ambite mete egiziane, in quella stessa direzione – ogni mese – vengono deportate persone che sono sfuggite alla miseria, alla repressione, al servizio schiavistico di leva che fa da controltare ai resort egiziani. Dietro la realtà delle località fittizie e costruite ad hoc per il turista occidentale si nasconde la realtà quotidiana del regime. 

Spesso, sfuggiti al terrore, si ricade in un altro terrore, quello della marginalità delle città europee e della selezione dei flussi verso l’Europa. Verso un altro terrore, quando finisci in un CPR e stai per essere deportato. Non sapere cosa succede, aggrapparsi di fronte all’abisso ai documenti, alla richiesta di protezione, ai mille appuntamenti in questura, magari in città diverse perché costretti a spostarsi e infine a perdersi in questo labirinto burocratico e, non sapendo nemmeno come, toccare il fondo in una galera etnica, nell’estremo nordest, in un paesino del Friuli. Da lì, in pochi giorni, si può venire prelevati la notte di un martedì, trasportati a Roma Fiumicino dove hanno condotto altri 4 egiziani dal CPR di Milano e chissà quanti altri ancora da altri CPR, carceri, questure e allo scalo che quel volo farà a Palermo. Infine al Cairo, dove si conclude un segmento della macchina dell’espulsione.

“Non posso tornare in Egitto, se torno mi aspetta la prigione. Ho 25 anni, come posso aver già sofferto così tanto?”, ci dice poche ore prima di essere deportato.

Ecco cosa succede un mercoledì di luglio, nel soporifero clima estivo.

Sappiamo invece che per qualche ragione le deportazioni via charter per la Tunisia singhiozzano. Non si fermano invece i tentativi sui voli di linea: qualche giorno fa abbiamo visto le belle immagini di una corsa fuori dall’abisso all’aeroporto di Bologna; ci riferiscono anche che la resistenza individuale di un recluso del CPR di Milano ha impedito una deportazione in Algeria. Segni, incrinature, sabotaggi della macchina, tutt’altro che perfetta e pacificata, delle espulsioni.


Il 20 luglio torneremo sotto le mura del CPR a portare la solidarietà ai reclusi e ai ribelli di Gradisca: perché le mura dei lager possano crollare, travolgendo le mille forme del razzismo di stato.

FUOCO A TUTTE LA GALERE

PER LA LIBERTA’

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