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Fuori dal CPR solo con la violenza: storie di ordinaria aberrazione [AGGIORNAMENTI]

Dentro le galere amministrative dello Stato le giornate passano uguali una all’altra tra la violenza degli assassini in antisommossa, lo scherno dei lavoranti delle coop gestrici, la complicità attiva di medici e infermieri, l’opportunismo di sciacalli di varia estrazione, il “fare la corda” anche solo per farsi portare la nomina dall’avvocato da firmare, andare in ospedale se si sta male, ricevere una terapia normalmente prescritta o addirittura un mocio per evitare che si allaghi la cella. 

Ogni situazione nei CPR è il pezzo di un mosaico di brutalità statale, dove la vita è stritolata tra repressione, indifferenza e burocrazia. Ma la quotidianità è anche spesso scandita a più riprese dal tentativo di distruggere le proprie gabbie per aprirsi vie di fuga, dall’incendiarle anche solo per poter essere ascoltati dai propri carcerieri.

Si ricevono notizie di fuochi continui, come anche di un operaio di Ekene che dopo aver tentato di spegnerne uno, spara l’estintore anche in faccia ad un prigioniero che di lì a poco “fa la corda”. Durante la notte successiva vengono accesi vari altri fuochi, al ritmo della musica che esce da una cuffia bluetooth che qualche solidale è riuscito a fare entrare. L’indomani, a scopo punitivo, tutti restano chiusi nelle gabbie, senza poter uscire nelle camerate. Il prigioniero che aveva “fatto la corda” viene portato via e non ritorna, nessuno sa se sia vivo, se sia uscito, se l’abbiano pestato lontano da occhi indiscreti o se sia stato portato in ospedale.

Talvolta, come sappiamo ma sa ancor meglio chi è stato privato della libertà, la forza e la determinazione ben indirizzate si configurano come mezzi diretti a strappare un lieto fine. E’ il caso di un prigioniero di ventidue anni, che una notte è riuscito a sfondare un plexiglass, a raggiungere il tetto del campo e infine a scappare nel buio. Altri due reclusi hanno provato a seguirlo, ma sono stati subito intercettati e riportati in cella.

In ogni galera e anche nei campi della detenzione amministrativa, spesso la riacquistata libertà di qualcuno comporta la sistematica vendetta e rivalsa degli aguzzini con e senza divisa contro chi purtroppo è rimasto indietro: il giorno successivo alla sua fuga, tutti i detenuti sono rimasti chiusi nelle celle, senza possibilità di uscire fino al pomeriggio. La scusa ufficiale sarebbe stata quella che gli operai di Ekene dovevano rimpiazzare il plexiglass sfondato con un’inferriata in acciaio. 

Un prigioniero ultrasessantenne, poi, dopo aver contratto la scabbia ha provato sulla sua pelle la “costante sorveglianza sanitaria” di cui parla l’ente gestore Ekene, ovvero la reclusione in una cella di isolamento. La stessa Ekene, poi, aggiunge che “in caso di necessità, non esitano ad inviare gli ospiti ai servizi territoriali d’urgenza” e infatti ci vogliono sei giorni e delle pressioni esterne perché un recluso ottenga una visita dopo l’ingestione di alcuni parti metalliche. Il giorno dopo la visita è stato rilasciato dal CPR: sospettiamo che Ekene non si volesse accollare l’eventualità che uno dei suoi “ospiti” riportasse gravi lesioni interne durante la prigionia.

Insomma, hai la scabbia? Ti abbandoniamo in isolamento. Hai la pressione che supera i duecento? Vedi di stare tranquillo. Hai ingoiato lamette? Antidolorifici. Quella di Ekene e del CPR è in effetti una macchina della tortura che mina la salute, la mente, i corpi, dei suoi “pazienti”.

Questo se si ha la fortuna di venire ascoltati. Ci raccontano ancora da dentro che i secondini di Ekene non rispondono mai alle chiamate, che l’unico modo per provare ad essere ascoltati è accendere fuochi. 

Il 6 settembre, intanto, fuori dal campo di Gradisca, c’è stato un corteo promosso dal Forum Salute Mentale, che ha portato, assieme a qualche centinaio di persone, anche il noto “Marco cavallo” di colore blu davanti ai cancelli. Sono dunque entrati al suo interno alcuni parlamentari per un’ispezione, ovviamente già nota da tempo a chi in quel lager ci lavora. Non sorprende quindi che questi parlamentari siano stati portati proprio nell'”area rossa”, quella in condizioni relativamente migliori e maggiormente pacificata. Nessuno era al corrente – a poco è valso avvertirli – che in area verde era in corso uno sciopero della fame, durato due giorni col fine di poter parlare con uno qualsiasi dei responsabili del campo. Lo sciopero è stato iniziato da un recluso stufo dello schifo del cibo, spesso imbottito di psicofarmaci, che viene destinato ai prigionieri. I suoi concellini hanno deciso di aderire allo sciopero in solidarietà.

Il CPR è una macchina di sfruttamento e oppressione totale: i corpi vengono usati, umiliati,  mentre attorno a loro cresce un’economia nera che risulta assai remunerativa a più livelli, non solo dal punto di vista materiale, nella quasi totale invisibilità. La logica è quella del ricatto per chi sta fuori e della cancellazione in favore della statistica di chi è prigioniero: togliere di mezzo vite, ridurle a numeri comodi per campagne elettorali e mediatiche razziste. In termini di detenzioni e rimpatri, i numeri restano molto bassi, ma pur sempre vite prese in ostaggio (alle volte anche alla seconda detenzione nel giro di pochissimi mesi, dopo le consuete retate nei quartieri).

Ancora dopo tre mesi non sentiamo notizie di deportazioni verso la Tunisia, grazie – sembra sempre più probabile – alle proteste dei deportati nel loro paese natale che hanno costretto il governo Sayed a bloccare temporaneamente le deportazioni dall’Italia. Al momento, a parte l’Egitto, gli unici rimpatri che avvengono sono quelli cosiddetti “volontari” e nell’ultimo mese sappiamo che ne sono avvenuti solo tre, verso l’Albania, la Serbia e la Colombia. Riguardo l’Egitto, un detenuto egiziano è stato deportato dopo poco più di ventiquattr’ore di reclusione e dopo essere stato pestato dalle guardie. Il volo che lo ha deportato, questa volta, è divenuto tracciabile solo dopo il decollo e la compagnia batteva bandiera turca. 

Queste storie non sono cronaca spicciola, ogni episodio è un atto d’accusa, una vita intera, calpestata da un sistema razzista, brutale, ma anche imperfetto e inceppabile. Continueremo a ripeterlo: i CPR non sono “centri di detenzione amministrativa”: sono lager etnici, luoghi di tortura, macchine di morte per gli ultimi e profitto per molti. 

Vanno solo abbattuti, con ogni mezzo a disposizione.

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