Sono giornate calde anche dentro al CPR di Gradisca d’Isonzo. I detenuti, provati dal calore, dall’indifferenza dei lavoranti e dal razzismo delle forze dell’ordine, ricorrono spesso all’utilizzo del proprio corpo come terreno di scontro e trattativa: numerosi sono stati i tentativi di corda, i fuochi appiccati a plexiglas materassi e coperte, le ferite autoinflitte – a cui segue celermente la violenza dei tutori della legge.
Da dentro ci raccontano di intere celle costrette a dormire fuori dalla camerata per giorni, di pestaggi nel cuore della notte. Abbiamo anche ricevuto notizia di un detenuto che sarebbe stato denudato, e legato mani e piedi a una sedia per ore.
Nell’area rossa le spedizioni punitive delle squadre di agenti in antisommossa sono ormai all’ordine della notte, e indirizzate particolarmente a due ragazzi poco più che ventenni. Le botte, le urla, gli insulti risuonano nel CPR, svegliano anche gli altri detenuti in un’azione punitiva e disciplinare. “Li picchiano in venti contro uno”, si sente da dentro.
Tuttavia il CPR opera ancora a capacità ridotta: circa 35 detenuti sarebbero presenti nella struttura, con molte persone che sono state rilasciate nelle ultime settimane a seguito di visite psichiatriche e/o alle pressioni dei rispettivi avvocati.
Parlando di avvocati vorremmo anche menzionare il comportamento ripugnante di uno degli avvocati d’ufficio più attivi – in combutta con la Questura – nella difesa dei detenuti. Ormai da 5 anni (dall’apertura del CPR) riceviamo notizie che costui non solo non assolve ai suoi doveri, non seguendo i casi, ignorando chi lo sostituisce quando va in vacanza, mancando di aggiornare i suoi assistiti sull’andamento delle sentenze che li riguardano, ma addirittura richiede il pagamento di bustarelle sottobanco che variano dai 150 ai 500 e più euro per fantomatiche “spese vive”, che pure dovrebbero essere coperte dal gratuito patrocinio di cui i reclusi hanno spesso diritto. Ne parleremo più approfonditamente in futuri aggiornamenti.

Una panoramica sul CPR
Attorno al CPR di Gradisca pare di intravedere alcune dinamiche generali, degli sviluppi a loro modo interessanti, pur tenendo sempre ferma la barra – le sbarre, verrebbe da dire – sulla funzione dei lager etnici. In termini generali sembra di rilevare un progressivo svuotamento – instabilità strutturale, “scricchiolii” giuridici, attenzione mediatica – e un rallentamento della macchina deportativa.
Un dato che forse meriterebbe approfondire, anche a livello più generale, riguarda il fatto che a Gradisca i termini di detenzione amministrativa paiono – a prescindere dalle contingenze di questi mesi – relativamente brevi rispetto ad altri campi. Posto che, di quella tortura, anche un giorno è troppo, come ci ha detto un prigioniero: “Ho fatto quasi quattro mesi là dentro, ogni giorno lo stesso terribile inferno”. Da quel che è dato sapere, nessuna detenzione è prolungata fino ai 18 mesi previsti dal decreto “Cutro” o ai 12 previsti in seguito a detenzione carceraria: i tempi medi sono di tre mesi, a cui si aggiungono o 15/20 giorni di convalida oppure, in altri casi, convalide di 2 mesi, che poi per ragioni non note si accorciano.
In ogni caso, il CPR di Gradisca, perlomeno per buona parte della sua esistenza e rispetto ad altri CPR, è sempre sembrato un centro ad alto “ricambio”, con elevata capacità deportativa. In aggiunta, si combinano due funzioni: una segregativa, a seguito di retate e controlli nelle città e nei territori di Venezia, Padova, Bolzano, Trento (e relativi hinterland); e una più afflittiva/espulsiva, successiva al periodo di detenzione carceraria (in particolare, ci riferiscono, dal carcere di Spini di Trento, dove dopo aver scontato non si scampa facilmente dal surplus di detenzione amministrativa se privi di documenti).
Attualmente il numero di prigionieri è relativamente basso, verosimilmente 30/35 reclusi distribuiti sulle tre aree (blu, rossa, verde), cifra drasticamente ridotta rispetto ai 75/80 dei mesi precedenti e dalle previsioni ministeriali (fino a 150, anche da nuova gara d’appalto). I motivi potrebbero essere molteplici, l’epidemia di scabbia, la maggior frequenza di rilasci anche in virtù delle sentenza della corte costituzionale o l’inagibilità di molte celle.
Cronaca delle tortura nelle settimane precedenti
Avevamo già parlato dell’epidemia di scabbia, che per qualche giorno ha di nuovo acceso i riflettori dei media di regime sul CPR di Gradisca, con la visita anche di qualche parruccone (della prefettura?) per verificare le condizioni igieniche interne. Alla fine, come prevedibile, tutto si è risolto nel tentativo di contenimento delle proteste più che dell’epidemia in sé. A parte qualche cambio di cella, qualche pulizia superficiale spacciata per disinfestazione, gli episodi di scabbia sembrano essere trattati con un po’ di cetirizina (tolto il prurito, tolta la scabbia) e di scabianil, in assenza di una vera e propria profilassi sanitaria.
Il regime detentivo ha continuato così, a numeri ridotti e con minor sovraffollamento delle celle ancora agibili, a segregare le persone. Tanti rilasci (con provvedimento di espulsione), soprattutto quando i prigionieri sono seguiti da un avvocato che si sbatte, e nuovi ingressi, anche in seguito a trasferimenti dal circuito dei CPR della penisola: un meccanismo a porte girevoli che sembra essersi velocizzato. La tortura, evidentemente, funziona anche accelerando e comprimendo i tempi e modi della sua esecuzione.
E’ in questo contesto che, in controluce, è possibile leggere tutte le pratiche di resistenza e di sabotaggio della macchina dal di dentro:
– a metà luglio, singolo suppelletyile di una cella veniva messo a fuoco per ottenere delle carte dell’avvocato (altrimenti là dentro nessuno ti dà retta);
– pochi giorni dopo, in alcune celle dell’area blu venivano accesi diversi fuochi, si verificava un tentativo di “fare la corda”, e si scatenavano svariate proteste contro il cibo somministrato — con brevi scioperi della fame e lancio del rancio nei corridoi;
– in quegli stessi giorni, nell’area blu, un “diavolo” (così è stato descritto e così lo citiamo: “urlava continuamente, si ribellava, non stava mai fermo, ne combinava una ogni volta” ci hanno raccontato) si arrampica fino alla parte superiore della gabbia esterna, perde la presa e cade violentemente sulla schiena. Si fa male e arriva persino l’elisoccorso. Ricoverato a Udine, riesce nel giro di qualche ora a scappare.
– accade lo stesso almeno in un altro caso: un prigioniero riesce finalmente a farsi visitare in ospedale e, si sa, la miglior cura è la libertà (come dicevano i basagliani prima che si perdessero nel simbolo di marco cavallo sequestrato per motivi di rappresentanza? Ah sì: LA LIBERTA’ E’ TERAPEUTICA!).
Un prigioniero di lungo corso, tra carceri e CPR, una sera ci ha detto: “alle volte quando guardo queste sbarre mi sento una lepre; vorrei correre, correre via!”
– a fine luglio, “un pakistano piccolo piccolo” è scappato infilando la testa tra le sbarre;
– sempre a fine luglio, c’è un nuovo tentativo di evasione: un recluso cade nuovamente dal tetto, perdendo conoscenza. Non è mai stato portato in ospedale, anche a fronte delle accese proteste della sua cella e di quelle limitrofe;
– qualche giorno dopo, ancora un altro tentativo simile. Questa volta la reazione è la brutalità: vengono tutti presi e picchiati selvaggiamente, poi privati di cure mediche;
– infine un nuovo tentativo di “fare la corda”: le guardie attorno, come sempre, indifferenti.
E le deportazioni?
Sul tema delle deportazioni, sono recentemente uscite alcune importanti riflessioni per cercare di mettere a fuoco alcuni punti salienti delle politiche di gestione, selezione, controllo ed espulsione e i relativi punti di frizione e attacco.
Scopriamo sorprendentemente di un blocco, ormai totale, delle deportazioni in Tunisia, che rappresentavano la punta avanzata dei rimpatri di massa dell’amministrazione italiana, con voli bisettimanali e una macchina oliatissima (raggruppamento nei CPR e nelle carceri; volo charter Trieste-Roma-Palermo o Roma-Palermo; riconoscimento consolare pro-forma; meta finale all’aeroporto militare di Tabarka in Tunisia, vicino al confine con l’Algeria). Voci di un arresto delle attività consolari – che sembra comunque improbabile, in ogni caso più verosimile che sia limitato alle funzioni consolari legate al processo deportativo – sembrano smentite da alcuni tentativi di inganno operati dalla stessa ambasciata per proporre “rimpatri volontari” per la Tunisia. Un’altra ipotesi vede nelle tensioni interne al territorio tunisino – proteste, sommovimenti – una causa del blocco degli accordi deportativi in corso. Torneremo prossimamente su questo punto.
Quel che è certo è che proprio qualche giorno fa Meloni era in Tunisia per incontrare il suo omologo (autoritario) Saied. Non si sa molto delle discussioni avvenute, ma pare che tra i “temi in agenda” ci fossero l’energia – è in fase di costruzione un elettrodotto sottomarino nel canale di Sicilia che vorrebbe collegare Partanna, in provincia di Trapani, a Mlaabi, nella penisola tunisina di Capo Bon. Ci sono inoltre grossi interessi di Eni ed Enel nella produzione di idrogeno e nel contrasto all’immigrazione.
Per l’Egitto, invece, la situazione pare inalterata, con deportazioni che proseguono a cadenza mensile, ma con uno schema che sembra essersi modificato e ha tutt’ora i contorni poco chiari.
FUOCO AI CPR E A TUTTE LE GALERE
TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE