Faisal Hossai è morto nella notte tra il 7 e l’8 luglio in una delle celle di isolamento del CPR di Torino, dove si trovava da 22 giorni. Secondo testimonianza di un recluso, riportata da fanpage.it, Faisal Hossai sarebbe stato stuprato da due altri prigionieri e avrebbe avuto bisogno di cure. Secondo fanpage.it, un suo compagno di prigionia aveva denunciato alla Questura la situazione con queste parole: “Ieri 24 06 2019 ci fu un episodio di stupro che si consumo all’interno dello stesso centro […]. Si tratta di un regazzo che le forze dell’ordine presenti hanno poi portato in isolamento dopo averlo portato nell’aria blu dove sono anch’io dall’aria gialla dove era prima. Questo perche quando il regazzo è entrato nell’aria ha comenciato a piangere e ci ha raccontato l’accaduto. […] La nostri paura è che provino a insabbiare l’episodio perche a loro no conviene sicuramente che si interessi la procura di quanto succede ogni giorno all’interno del centro”. La polizia ha negato di aver ricevuto qualsiasi informazione a riguardo.
Dopo la denuncia, Faisal Hossai era stato trasferito prima nella zona blu e poi in isolamento, dove è morto la notte tra il 7 e l’8 luglio. Alla notizia della sua morte, è cominciata una rivolta da parte dei suoi compagni di prigionia, stremati per le condizioni di detenzione e per le sistematiche violenze che sono costretti a subire da parte della polizia. Le proteste all’interno del centro si sono susseguite durante tutta la giornata. La sera, la polizia è intervenuta per sedare la rivolta, utilizzando lacrimogeni e idranti all’interno del CPR. Nello stesso tempo, un gruppo di solidali che si era trovato in presidio fuori dal centro ha subito – insieme ad un fotoreporter – diverse cariche della polizia in tenuta antisommossa.
La vera faccia dei CPR, la loro natura di lager, buca con la morte di Faisal Hossai il velo dell’attenzione mediatica: per un giorno un fatto di cronaca mostra la violenza quotidiana che mettono in atto questi centri di internamento. Come ci stanno gridando tutti coloro che in questi giorni si stanno ribellando e stanno fuggendo dai CPR di Caltanissetta, di Roma, di Torino e, come ci grida la morte di Faisal Hossai, i CPR sono luoghi di tortura e non devono esistere.
A meno di un mese dalla morte di Sajid Hussain, che si è suicidato mentre viveva nel CARA di Gradisca, la morte di Faisal Hossai ci mette di fronte, di nuovo, al fatto che il CPR che vogliono aprire a Gradisca – come tutti gli altri – sarà un luogo di morte, dove si sopravviverà senza tutele e sotto tortura. Solo qualche giorno fa, un altro uomo che viveva nel CARA di Gradisca ha tentato di uccidersi buttandosi nel vuoto ed è stato fermato da un un passante. Anche lui, come Sajid Hussain, aveva chiesto il rimpatrio volontario.
Come scrive il compagno di Faisal Hossai nella sua mail alla Questura e ai giornali, “Chediamo per cortesia che qualcuno ci dia voce siamo stremati della fame è degli abusi perpetrati dello stesso personale senza poter fare niente.”
Pensare di non poterci fare niente, stringere lo spettro del proprio paraocchi per evitare di fare i conti con la realtà, delegare alle istituzioni una “gestione” o un cambio, sono tutte forme di “complicità passiva” con quello che sta accadendo.
Di “complicità attiva” ce n’è già molta, a noi spetta svegliarci e prenderci la responsabilità di reagire, di fermare questa catastrofe orchestrata in nostro nome.
A Gradisca vogliono aprire un lager, a Gradisca e a Udine esistono già centri di accoglienza alienanti dove le persone si ammazzano, a Trieste vengono bloccate persone stremate, in cammino da settimane, e rispedite violentemente oltre i confini europei. Tutto ciò avviene in nome della nostra sicurezza, economica e sociale.
Quei confini e quei lager creano un mondo più violento, autoritario e insicuro per tutte e tutti, per chi è nativa/o e per chi è arrivata/o. Se chiunque lo sa facesse dei passi in più nell’azione quotidiana, il lager di Gradisca e i respingimenti al confine si potrebbero bloccare.