#1. Ieri sono arrivato a Šid e ho immediatamente iniziato. Non sapevo dove fosse l’appartamento dei volontari e quindi mi sono fatto accompagnare, da un ragazzo afghano che ho incrociato in stazione, direttamente allo squat. Si tratta di un edificio a 2 piani abbandonato da lungo tempo. Molte pareti sono solo mucchi di calcinacci; porte e finestre o intonaco sono inesistenti. La calce grigia dei muri che resistono, qua e là ricoperta di scritte a pennello, è più o meno tutto quello che si vede. Solo dal pavimento, in cui alcune piccole zone del rivestimento superficiale ancora si intravedono, e dal poco che si può capire della planimetria, si può azzardare l’ipotesi che l’edificio fosse un tempo una scuola o un qualche tipo di di ufficio pubblico. Ieri, quando sono arrivato, ho conosciuto due volontari di No Name Kitchen nel mezzo del turno docce: da mezzogiorno alle cinque, si porta l’acqua allo squat, si aziona una pompa, si montano due tende per un minimo di privacy e così, all’interno di un locale esterno a cui manca la parete che dà sul giardino e dove l’acqua delle docce dei giorni precedenti (si fanno due turni a settimana) ristagna in una pozza maleodorante, le persone possono lavarsi. Nello squat, di questi tempi, vanno e vengono giornalmente 70-80-90-100 persone. Un po’ dipende dalla polizia di frontiera croata, un po’ da quello che succede a Belgrado e alla rotta bosniaca. Gli arrivi, come ho potuto notare qualche ora più tardi, sono costanti. Delle partenze sappiamo poco, oltre a qualcuno che promette “tonight i go to the Game” – che significa infilarsi sotto i camion più grandi per cercare di passare sotto il naso dei doganieri serbi e croati del posto di blocco. È anche difficile capire quando manca qualcuno. Ovviamente non facciamo appelli, e con 70+ persone diventa più facile rendersi conto delle facce nuove che non di quelle che mancano.
Venerdì 14 settembre 2018